E se l’Andrea Crisanti del 2020 fosse la risposta a un problema posto da Carrie Fisher nel 1987?
Se non vivete su Marte, sapete già cos’è successo, ma ve lo riassumo.
Andrea Crisanti è un biologo dall’accento assai romano che lavora a Padova e che ha fatto fare a Zaia la figura del gigante capendo per primo (e venendo per primo ascoltato da qualcuno con mansioni istituzionali) che bisognava tracciare e fare tamponi, fare tamponi e tracciare, altrimenti era un casino (aveva ragione lui, e ora è un casino).
Queste informazioni in genere negli articoli su Crisanti non vengono date, giacché i virologi sono le nuove popstar, e dire chi sia Crisanti in un articolo che ne riporta le opinioni, nel 2020, appare ridicolo come lo sarebbe stato scrivere «Madonna, cantante» nel 1998.
La settimana scorsa Crisanti va a un festival organizzato dalla rivista scientifica Focus e, a domanda del moderatore, «Lei se lo farebbe il primo vaccino che arriva a gennaio?», risponde: «Senza dati no».
Viene giù il cielo. Un po’ perché ai giornali non pare vero d’avere una polemica così comodamente cliccabile, un po’ perché il virus e il di esso contenimento sono il tema su cui tutti hanno un’opinione.
La più diffusa in questo caso è stata: sì ma non puoi dirlo in pubblico e farti strumentalizzare dai no vax.
Si potrebbe aprire un dibattito sulla responsabilità di chi è autorevole rispetto alla scemenza degli esseri umani: hai il dovere di non dire una cosa che reputi vera perché sai che quella cosa verrà stravolta e usata in maniera propagandistica dai peggio scemi?
Rispondete voi, io vorrei occuparmi d’un altro punto.
Nel prosieguo dell’intervista, Crisanti spiega che «questi vaccini sono stati sviluppati saltando la sequenza fase 1, fase 2, fase 3»: portando avanti le tre fasi in parallelo invece che in sequenza, non si affronta la fase successiva avendo risolto i problemi delle precedenti, e quindi occorrerebbe un lungo processo di revisione finale.
Al netto della possibilità dei picchiatelli di internet di scrivere sulle loro bacheche «vedete, i vaccini sono pericolosi, l’ha detto anche l’autorevole Crisanti», la perplessità circa la velocizzazione del processo non è esattamente un concetto inedito o estremista.
Abbiamo tutti un amico medico che nei mesi scorsi ci ha detto che figuriamoci, prima d’un anno o due del vaccino non se ne parla, ci sono dei tempi tecnici di sperimentazione; e che, quando s’è iniziato a dire che il vaccino era imminente, ci ha raccomandato di non farcelo, non sarà stato abbastanza sperimentato, come minimo ti vengono le branchie.
Il vaccino che ti fa crescere la coda è la battuta più fatta nelle private conversazioni di gente che non è affatto antivaccinista. Certo, siamo gente di mondo e non l’avremmo detto in pubblico.
Ma il punto che m’interessa qui non è neanche ciò che è consentito dire in pubblico e ciò che ci si tiene per le conversazioni private.
Il punto è quella che nell’87 era solo una battuta e adesso è un’analisi dello Zeitgeist.
Carrie Fisher era un’autrice americana che, a seconda di quanti anni abbiate, conoscete come principessa di Guerre Stellari, come amica della protagonista di Harry ti presento Sally, come piantata all’altare dei Blues Brothers. Ma era, appunto, prima un’autrice che un’attrice. Nell’87 scrisse Cartoline dall’inferno, storia dei suoi ricoveri per disintossicazione e del suo rapporto con la madre (una certa Debbie Reynolds: il padre di Carrie, Eddie, la piantò per una certa Liz Taylor).
In Cartoline dall’inferno c’era la spiegazione di tutto.
Del perché all’inizio del ’600 i teatri londinesi, per l’epidemia di peste, restarono chiusi per un totale di sei anni e mezzo (ed erano gli anni di Shakespeare: il teatro aveva una certa qual rilevanza), e se adesso le scuole si svolgono a distanza per sei mesi ci sembra che finisca il mondo.
Del perché smaniamo per ottenere un vaccino in sei mesi invece che in due anni.
Del perché ci sembra un’ingiustizia cosmica dover aspettare i tempi fisiologici di soluzione d’un problema.
Del perché Amazon si arricchisce garantendoci la consegna in dodici ore d’un qualsiasi oggetto che non toglieremo dalla confezione probabilmente per settimane ma se non ce l’avessero recapitato immediatamente ci sarebbe venuto il mal di testa.
Del perché non abbiamo visto per intero lo stesso video di Crisanti, il che ci avrebbe dato modo di scandalizzarci doppiamente: probabilmente prevedendo il casino che la sua frase avrebbe scatenato, egli proseguiva con un’autodiagnosi di Asperger; gliel’ha detto la moglie, «tu spesso non ti rendi conto», e insomma, concludeva, «tendo a sorprendere e a provocare, però molto spesso l’effetto va al di là delle mie intenzioni».
Tutto questo, tutta questa fretta, tutta questa impazienza che la moglie di Crisanti e le mamme dell’internet e i medici di famiglia non esiterebbero a inserire nello spettro dell’autismo, stavano in quello che sembrava solo un memoir familiare di Carrie Fisher ed era invece una profezia del tempo che sarebbe venuto. Diceva la protagonista che «instant gratification takes too long».
È tutto lì, è per quello che ci serve il vaccino subito, e non ce ne frega niente se ci crescerà la coda: è perché la gratificazione istantanea non arriva abbastanza in fretta.
Siamo l’epoca che ha abolito i preliminari: ricarichiamo ossessivamente la pagina di tracking per sapere a quanti metri da casa è la pizza che ci sta consegnando Glovo; facevamo (finché si poteva viaggiare) il check in on line per non perdere dieci minuti in aeroporto; paghiamo servizi di streaming per vedere film dei quali abbiamo i dvd in salotto ma ci metteremmo dieci interminabili secondi a prenderli dallo scaffale; e facciamo l’assai meno affidabile tampone rapido per non aspettare tre ore per il risultato dell’esame.
Pretendiamo prima che istantaneamente la soddisfazione d’ogni desiderio: vi sembra che siamo un’umanità adatta a sentirsi dire che deve stare a casa due anni finché il vaccino non sarà stato sperimentato con procedure e tempistiche novecentesche?