Dimentichiamo tavola calda e trattoria. Superiamo il bistrot e il ristorante, il cafè e il wine bar. Il nuovo lessico della ristorazione commerciale include – da qualche anno – parole che paiono uscite da un videogame ambientato in un Medioevo fantasy e da un incubatore di start up della Silicon Valley. Invece sono il futuro, anzi già il presente della ristorazione fast casual. Dark, ghost e cloud kitchen: nelle città italiane nascono e operano questi nuovi modelli di business. Anzi, prosperano grazie alla brusca accelerazione del fenomeno delivery inculcata dalla pandemia.
Funzionano perché il valore dell’online food delivery in Italia nel 2020 è salito a 863 milioni di euro, +46% sul 2019, con una copertura che tocca il 93% delle città sopra i 50 mila abitanti (le regine restano Milano, Torino e Roma). Però ormai non parliamo più soltanto di ristoranti che dedicano una parte della propria cucina a preparare piatti da affidare ai rider. Il nuovo è il ristorante senza sala, che vive solo come entità digitale, e in tutto quello che c’è nell’organizzazione dietro a quel pasto, a quel menu. Nelle scelte guidate da una enorme mole di dati raccolti dai canali digitali.
Nonostante i toni dark – appunto – le cucine fantasma altro non sono che cucine professionali opportunamente nascoste agli occhi del cliente finale, dove cuochi e operatori preparano cibo destinato solo agli ordini raccolti sulle piattaforme di delivery come Glovo, Deliveroo, Uber Eats, Just Eat. Tutto preparato ottimizzando tempi, risorse e materie prime. Cris Nulli è un esperto e docente di digital marketing; nel 2017 ha fondato Appetite for disruption, think thank italiano della ristorazione e del food service. «Tutti questi nomi – dark, ghost e cloud – sono riconducibili a un unico concetto: la cucina delivery-only, senza consumo di cibo dentro il locale. Perché il locale non c’è. Al massimo, c’è un corner per il take away». Il perno di tutto questo nuovo modo di fare ristorazione è il marchio virtuale, che può servire a diversi scopi. Proviamo a mettere ordine, anche se non c’è uniformità sull’utilizzo di temrini come “dark” e “ghost”.
Si può individuare una prima formula, quella della dark kitchen: un imprenditore della ristorazione già esistente, con un locale vero, spesso una catena, usa una cucina operativa per preparare i piatti da consegnare, per far vivere una sua seconda insegna che è solo virtuale. L’imprenditore è lo stesso, i due brand diversi. Spiega Nulli: «Pacific Poke è una catena di pokè forte su Torino che prova ad approcciare un nuovo territorio, ed ecco che esordisce su Milano solo con le consegne e con un brand diverso, usando la dark kitchen di Glovo. Pescaria usa quello stesso laboratorio di cucina di Glovo (chiamato Cook Room) per testare un brand virtuale, Pescaria Solo Fritti, dedicato esclusivamente alla frittura di mare da ricevere a casa».
Altro modello è quello un solo imprenditore-un laboratorio di cucina-tanti brand virtuali. È la ghost kitchen. A Milano la ex concorrente di Masterchef 5 Alida Gotta, Maurizio Rosazza Prin e Davide Mancini hanno fondato Delivery Valley. Una sola cucina, da cui escono i piatti di quattro brand presenti sulle principali piattaforme: gli hamburger di Giga Burger, le pizze di Lievito Mother Fucker, le carni di Gira-Gira Arrosto e i fritti di pesce di Fritt Fighter.
Più sottottraccia Ktchn Lab, fondata dai due ex studenti dell’Università Bocconi Nicola Ballarini e Andrea Roberto Bifulco. Andrea, ex Google e ex Vodafone, racconta a Gastronomika: «Il nostro primo laboratorio ha aperto il 6 marzo 2019. Oggi diamo lavoro a 30 persone, abbiamo 3 cucine a Milano, 1 a Torino, apriamo a Bologna settimana prossima e puntiamo anche a Roma entro gennaio. Abbiamo lanciato un piccolo test a Reggio Emilia, per capire quale sia la dimensione minima di una città tale da permetterci di rimanere in piedi solo con il delivery. Gestiamo più di 14 brand, serviamo circa 40.000 clienti al mese ed abbiamo scelto di proporre solo una cucina di alta qualità evitando di entrare nei must del delivery come burger, pizza e sushi dove ci sono dei “mostri sacri” che fanno un eccellente lavoro». La formula di Ktchn Lab si basa su tre punti. «Velocità: 6 minuti dopo aver ricevuto l’ordine, il prodotto è già fuori per essere consegnato. Packaging perfetto: nessuno dei nostri piatti, che sia una insalata o una pasta, si danneggia se cade al rider o se si ribalta tra le mani del cliente, perché abbiamo fatto ogni sforzo possibile per progettare packaging a prova di tutto. E poi, qualità massima, sia a livello di materia prima che di tecniche di cottura». Come in una delle migliori scene di The Founder, il film sulle origini della catena McDonald’s con Michael Keaton protagonista, i ragazzi di Ktchn Lab progettano ogni centimetro dei loro laboratori per assicurarsi la massima efficienza. «Maciniamo circa 1.000 ordini al giorno senza andare in crisi, soprattutto grazie agli investimenti fatti per studiare le procedure ed il tempo investito nel capire il modello. Non possiamo consegnare una lasagna da ristorante stellato, ma la migliore lasagna che si possa mangiare con il delivery, questo sì». La formula prende il meglio del ristorante e il meglio della digital company: si raccoglie una montagna di feedback, si studiano i dati e creano piatti e proposte su spinta dei clienti stessi. E se su una città finisce nel dimenticatoio una cucina di moda, ci si adatta, magari anche sacrificando un brand per riportarne in auge un altro con migliori prospettive.
Da pochi giorni, sempre a Milano, c’è un’altra novità: una cloud kitchen. Formula ancora diversa, perché opera con una schema da coworking. Un solo imprenditore apre uno spazio-cucina suddiviso in tante postazioni già allestite. Chi vuole mettere in piedi un piccolo business di ristorazione può affittare una postazione e iniziare a preparare e a consegnare attraverso le solite piattaforme, oppure per il take away. Quella appena aperta nel capoluogo lombardo si chiama Kuiri, e l’iniziativa è di Paolo Colapietro. «Le nostre postazioni sono di circa 15 mq e nel primo spazio pilota – già sold out – ce ne sono 5: una pizzeria, una hamburgheria, un brand di tacos, un vegano e uno di galletto alla brace. Presto avremo un altro hub da 10 postazioni», spiega a Gastronomika il fondatore di Kuiri. «Ognuna ha un costo di 2.000 euro al mese e può ospitare anche più di un virtual brand, se ci sono affinità di ingredienti e di preparazioni. Attiriamo le startup del food, che usano in nostri spazi, e siamo noi stessi ad aprire loro le porte delle piattaforme di delivery. Di qui a un anno, Kuiri vuole aprire altre due cloud kitchen a Milano. Poi Torino, Bologna e Roma entro 48 mesi.
Ora che siamo in piena sbronza da delivery, resta un piccolo lumicino di lucidità per porsi una domanda sui postumi: resisterà, tutto questo, alla tanto agognata normalità in cui tutti speriamo? Tutti i player del settore – analisti, osservatori, operatori del delivery, startupper – sono convinti che la propensione al consumo con queste modalità, seppur non in crescita mostre come si è visto quest’anno, resterà solida realtà sul mercato della ristorazione commerciale. «Attenzione», conclude Cris Nulli di Appetite for distruption, «perché con i brand che esistono solo online manca totalmente l’esperienza fisica di consumo. Bisogna compensare». Ecco perché ci arrivano a casa packaging raffinati, o perché possiamo ordinare piatti su misura anche su ristoranti virtuali con menu standardizzati. «Perché il virtual brand è in difetto, e fa ogni sforzo per ricreare un’esperienza a casa che possa fidelizzare il cliente. Quanto al futuro, ormai siamo ai big data applicati alla ristorazione. Un imprenditore potrà vivere come insegna omnicanale: avrà i dati raccolti dai suoi profili social, quelli che arrivano dalle piattaforme di delivery (sulle quali si fanno gli ordini) e l’analisi delle ordinazioni e dei feedback in sala, se la sala c’è. Incrociando questa marea di informazioni e analizzandole, si prendono – semplicemente – le decisioni migliori».