Chi dorme non sigla accordiÈ scaduto l’ultimatum del Parlamento europeo, ma il negoziato post Brexit è ancora appeso alla pesca

Gli eurodeputati avevano fissato domenica 20 dicembre come ultimo termine per approvare un accordo commerciale tra Londra e Bruxelles. Dal 1 gennaio 2021 finirà automaticamente il periodo di transizione, ma si continua a trattare

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A mezzanotte di domenica è scaduto l’ultimatum del Parlamento Europeo, o «il momento della verità» come l’ha definito il caponegoziatore di Bruxelles Michel Barnier, ma i bilaterali post-Brexit continueranno questa settimana. Il Regno Unito è tornato al lockdown duro dopo la scoperta di una variante del coronavirus più aggressiva. L’Unione Europea è pronta a concedere una tregua. Il Natale non poterà un lieto fine e quella del 31 dicembre resta una soglia che potrebbe essere sforata di fronte alla nuova emergenza. Downing Street auspicava concessioni, o una serie di sotto-accordi sugli ambiti dove non c’è più attrito. 

Sul lato continentale, un ostacolo all’appeasement è l’Eliseo. L’interventismo del presidente Emmanuel Macron – eletto l’anno dopo il referendum, nel 2017, sulle note europeiste dell’Inno alla gioia – è stato tale che in certe fasi sembrava fosse in ballo un accordo commerciale anglo-francese, annotava il Times di domenica. La cancelliera Angela Merkel ha ammonito Londra nel corso dell’autunno, ma nella venticinquesima ora dei negoziati ha virato, caldeggiando un compromesso. Nell’ultimo miglio, è stata Parigi a riesumare il no deal is better than a bad deal che non portò fortuna a Theresa May. 

In un blocco di 27 nazioni, la Francia è tra le uniche a considerare politico il tema della pesca. Per generazioni, lungo la sua costa settentrionale, buona parte del pescato è stato catturato nelle acque britanniche. Sulla Manica, la regione Hauts-de-France, con sei milioni di abitanti, è gemella del Kent inglese dal punto di vista dell’interdipendenza. Il traffico di merci paralizzato da un 1° gennaio senza accordi, insomma, graverebbe su entrambe le sponde. Sono stati bifronti anche gli investimenti da 47 milioni di euro sull’Eurotunnel, per rafforzare Calais e Folkstone, i terminali su cui orbita il 40% dei traffici sullo Stretto di Dover. 

Nel trittico di dossier su cui manca l’intesa, da mesi, accanto ai massimi sistemi (gli aiuti di Stato e il level playing field, cioè il sistema di contrappesi e sanzioni se la Gran Bretagna violasse in futuro gli standard comunitari) continua a figurare la pesca. In termini economici, il comparto è minuscolo per il Regno Unito: vale 436 milioni di sterline all’anno, meno dei grandi magazzini di Harrods, contro i 132 miliardi della City. In un’epoca di risorgente isolazionismo, però, è diventato l’icona della «sovranità mutilata» della propaganda di Brexit. È rimasto l’ultimo baluardo nel naufragio separatista: la quasi totalità, 57 su 58, dei trattati mercantili firmati dal governo conservatore è una mera replica di quelli persi lasciando l’Ue. 

Se non è una lobby finanziaria, perché rappresenta un prefisso telefonico nel Pil (meno dello 0,1%), quella dei fishermen è una categoria esigua ma ad alto tasso simbolico. Nel 2016, le loro imbarcazioni solcarono il Tamigi per sposare il Leave. Il risentimento si spiega con un dato: le acque territoriali britanniche vengono storicamente «saccheggiate» dagli equipaggi europei. Tra il 2012 e il 2016, per esempio, è finito nelle reti inglesi solo il 37% del pescato all’interno dei loro mari, cioè 546 mila tonnellate all’anno. Il resto è stato catturato da europei (706 mila quintali all’anno) e norvegesi (231 mila). Le flotte britanniche, invece, catturano oltre il confine nautico 94 mila tonnellate (Ue) e 37 mila (Norvegia). 

Ma il dato va sezionato ulteriormente: metà dei pescherecci registrati come inglesi, in realtà, appartengono a compagnie con sede in Islanda, Spagna o a Oslo. Un caso emblematico, secondo il Times, sono gli olandesi della Frank Bonefaas: capitalizzano il 22% del pescato totale e, nonostante battano bandiera britannica, lo sbarcano interamente nel porto di Vlissingen. Sono fra le più ricche del continente le acque della Regina, che in base alle convenzioni internazionali dopo la fine dell’anno di transizione si estenderanno a 200 miglia dalla costa. Il loro «tesoro», però, finisce di rado sulle tavole dell’isola e i tabloid hanno avuto buon gioco a denunciare il «furto» in decenni di retorica velenosa.

I volumi possono sembrare squilibrati, ma non sono illegittimi. Le quote di pesca per ciascuna specie – per la cronaca, quelle contese sono sgombri, aringhe, capesante, eglefini, scampi, granchi, merluzzi, maccarelli e anguille – sono definite dalla Politica comune della pesca europea, valida fino al 31 dicembre 2020. Negli anni Novanta, però, moltissimi pescatori inglesi prostrati dalla crisi (e fra gli sconfitti del thatcherismo) hanno venduto le loro quote, tagliate in quella fase, all’estero. Belgio e Danimarca fecero incetta come investimento di lungo periodo. 

Fuori dalla Politica comune, Downing Street vorrebbe convocare in futuro dei summit annuali per definire le percentuali, sul modello norvegese. Lo stesso che viene invocato per la tregua doganale. Alcuni Stati membri, su tutti la Francia, spingono per conservare lo status quo, o prolungarlo il più possibile. C’è un paradosso: è d’importazione la maggior parte del pesce che viene consumato e venduto in Gran Bretagna, mentre il pescato inglese viene quasi tutto esportato, per tre quarti nell’eurozona. Quindi il settore, già debole, collasserebbe se scattassero le barriere doganali del «no-deal» per cui preme. L’ennesimo cortocircuito. 

Anche per ragioni di consenso interno, Londra vorrebbe dimezzare il «bottino» europeo, ma questo è il livello macroscopico. Su scala ridotta, nelle comunità costiere, la pesca ha rappresentato sia una tradizione familiare sia uno sbocco alla disoccupazione. Non solo sull’isola: il veto di Macron è anche a fini elettorali, ha bisogno dei voti di quelle enclave regionali per la riconferma nel 2022. Specularmente, Johnson vede i laburisti avvicinarsi nei sondaggi e il suo esecutivo arma la guardia costiera per difendere i banchi ittici, mentre filtrano rumors semiseri sullo studio di un sistema di correnti e barriere per impedire al pesce, che ignora tanto la geopolitica quanto il casus belli che ha innescato, di sconfinare. 

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