Paura e delirio a Downing StreetLa venticinquesima ora dei negoziati post Brexit

Londra e Bruxelles entrano nell’ennesima settimana decisiva per stabilire le loro future relazioni commerciali. Il no deal ormai è un rischio calcolato e la Commissione europea ha rivelato la sua exit strategy: un piano d’emergenza che oltre a tutelare il traffico aereo, permetterà per sei mesi ai camion con le merci di continuare ad attraversare la Manica

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La saga di Brexit procede per salti, un po’ come la meccanica quantistica. A innescare ogni progresso è stato il fattore tempo. Quando sta per scadere, a Londra succede qualcosa, è la legge spannometrica dei negoziati con l’Unione europea. Siamo entrati nella venticinquesima ora, l’ennesima settimana decisiva. Il no deal è un rischio calcolato dalle controparti, è la posta in questo gioco col fuoco che scotterebbe soprattutto il Regno Unito. In alternativa, un compromesso allo scadere per smussare una «hard Brexit» di facciata (e salvare la faccia a Boris Johnson). Delle due l’una. In entrambe, prende quota la prospettiva di continuare a trattare nel 2021. 

Paura e delirio a Downing Street. Mercoledì sera, la cena brussellese fra il premier e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha chiuso in crescendo un atto che rispetta la partitura dell’interregno seguìto al referendum del 2016. Solito copione: stallo fra le delegazioni, si evoca una frattura «stavolta insanabile», vengono chiamati in causa come deus ex machina i rispettivi superiori. Uno dei due, però, è anche la causa del litigio. L’ostruzionismo inglese serve anche a far digerire in patria un accordo dopo il machismo a doppio taglio di Johnson, dal «piuttosto morto in un fosso» della campagna elettorale al «nessun primo ministro accetterebbe queste condizioni» pronunciato prima di salire sull’aereo per Bruxelles. 

Boris è un politico poco attento all’etichetta, ma era stato lui a sollecitare quella soirée, dopo che era naufragato il confronto telefonico con la presidente. Ha chiesto una pausa e poi non si è ripresentato alla cornetta. Forse, è la migliore metafora della Brexit finora. Il colloquio è comunque servito, se non altro a comprare tempo. Un extra time di bilaterali che scadrà domenica. Nella schizofrenia dell’ultimo miglio, s’è spento in fretta l’ottimismo di chi aveva confuso l’intesa di principio raggiunta l’8 dicembre con i titoli di coda. 

Come il calendario, le scadenze sono una convenzione. A oggi, il divorzio dall’Ue le ha bucate tutte. Il 31 dicembre (quando termina l’anno di transizione) è stata sempre considerata l’unica data intoccabile. Il finale sarà diverso? Sforare è un tabù, ma l’esito è meno binario di quanto sembri: un appianamento in estremo potrebbe includere una moratoria su ambiti da definire in futuro. Messe in pausa le conseguenze nocive, anche il no deal implicherebbe non smettere di trattare, ma ormai non troverebbe impreparati i due blocchi. 

Ieri la Commissione ha rivelato la sua exit strategy. Era già pronta, ma è rimasta in un cassetto per non gravare sulle trattative. Pubblicarla prima sarebbe stato un segnale che Bruxelles aveva perso fiducia nel lavorio diplomatico. Non è mai stata un segreto la task force omologa del Regno Unito, invece. In caso di no deal reale, il 1° gennaio gli aerei delle compagnie inglesi perderebbero il diritto di volare in Europa. Per evitare questo e altri scenari limite, l’Ue ha stilato un piano d’emergenza che, oltre a tutelare il traffico aereo, permetterà per sei mesi ai camion e quindi alle merci di continuare ad attraversare la Manica.

Di fatto, il protocollo europeo copre le zone franche delle regolazioni internazionali. Per esempio, si propone di garantire mutuo accesso alle acque territoriali ai pescherecci durante il 2021, mentre vengono ridiscusse le quote di pescato. Questa tregua provvisoria su un dossier chiave potrebbe congelare uno dei maggiori impedimenti. Alcune misure, come quella sul trasporto aereo, per essere efficaci dovranno essere ricambiate da Londra. Il blocco dei voli strazierebbe un’industria già in crisi per la pandemia. Secondo i giornali inglesi, la proroga dei permessi è la contropartita chiesta dall’Ue per il rispetto degli standard comunitari che il governo conservatore rifiuta. 

Ma lo schema è unilaterale. Ora la palla passa nel campo inglese, che potrebbe preferire il vecchio patto commerciale. Sul lato europeo, è la cosa più vicina a una soluzione win-win di un quadriennio da psicodramma. Se non arrivasse la firma sull’accordo quadro, insomma, Bruxelles potrebbe ripiegare su una serie di sub-deals meno ampi per mettere al sicuro i capitoli su cui non c’erano più obiezioni, oppure utilizzarli come moneta di scambio per strappare concessioni. Sui tabloid, questo pressing è visto come un ricatto, perché se Downing Street non cede salteranno le connessioni aeree e via terra con il continente. 

Peccato sia esattamente quanto accadrebbe in caso di no deal. In questo cortocircuito si rinfaccia all’Europa il caos previsto sin dall’inizio. Solo che mentre i diplomatici comunitari si sgolavano per mettere in luce le ripercussioni, le frange eurofobiche del partito conservatore tenevano in ostaggio il governo May. Con Boris sono entrate al numero 10 di Downing Street e, malgrado la cacciata di Cummings, non sono ancora uscite dalla porta. Mancano tre settimane: un’eternità, per gli standard della saga.

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