La miccia la accese un ragazzo di 27 anni, il 17 dicembre 2010. Si chiamava Mohamed Bouazizi e il suo gesto divenne un simbolo. Scelse di darsi fuoco per protestare contro i (tanti) soprusi di un regime, quello di Zine El-Abidine Ben Ali, che soffocava le giovani generazioni a cui anche lui apparteneva. Quella protesta gli costò la vita, ma la sua fu una scintilla. Perché, in un certo senso, le contestazioni che, all’inizio del 2011, avviarono le primavere arabe partirono proprio da lì, da quell’indignazione generazionale che, non tollerando più disuguaglianze, corruzione e repressione, protestava. E come in una specie di domino politico, un tassello dopo l’altro, i regimi dei vecchi faraoni del Maghreb (e non solo), dittatori fuori tempo massimo, crollavano dopo decenni di potere assoluto. Perché la molla che spinse tante persone in piazza, quasi dieci anni fa, fu la volontà di mettere in discussione modelli politici (e sociali) definitivamente intollerabili. A manifestare, nel Maghreb in rivolta, furono lavoratori, laureati, studenti universitari, giornalisti, credenti, laici, disobbedienti e intellettuali, i quali ambivano a una società che li meritasse.
L’ignoranza dei colti europei
Ma se in Occidente e in Europa, la complessa volontà delle primavere arabe non è stata (quasi mai) compresa del tutto, i motivi sono tanti. E diversi. Lo scrittore iracheno Hassan Blasim, riferendosi all’atteggiamento eurocentrico di leggere il mondo solamente attraverso se stesso e con le propri lenti stereotipate, definisce questo equivoco come «l’ignoranza dei colti». In “Arabpop, arte e letteratura in rivolta dai Paesi arabi”, le due curatrici del volume (uscito quest’anno ed edito da Mimesis), Chiara Comito e Silvia Moresi (entrambe arabiste), analizzano i fenomeni socio-culturali alla base di quella ribellione e provano a spiegare cosa l’Europa non sia stata in grado di decifrare. E, soprattutto, perché. «In ossequio all’idea secondo la quale le società arabe sono passive, rassegnate e incapaci di ribellarsi da sole, i manifestanti sono stati spesso descritti come burattini nelle mani delle potenze occidentali (e non), che stavano decidendo i nuovi assetti geopolitici e manovrando gli ambienti politici e religiosi di quei Paesi. In realtà, le giovani generazioni che, all’inizio, hanno dato vita alle rivolte, lo hanno fatto senza alcuna organizzazione e senza il sostegno dei partiti politici. Le contestazioni si diffusero soprattutto grazie ai social media e sono state alimentate da una vera e propria esplosione creativa, che ha coinvolto artisti, scrittori, intellettuali e poi l’intera società civile. Tutto questo è stato ignorato dall’Europa che, successivamente, quando purtroppo i regimi sono riusciti a reprimere le proteste, o si è affrettata a legittimare i nuovi dittatori o ha continuato a chiudere gli occhi sui crimini dei regimi rimasti al potere», spiega Moresi, traduttrice e docente di Cultura e letteratura araba contemporanea all’Istituto di Alti Studi SSML Carlo Bo di Bari.
Perché l’Europa non ha capito
Nel libro, in cui sono raccontate soprattutto le diverse forme d’arte che hanno plasmato e forgiano tuttora le società coinvolte, le due curatrici rilevano solo nello stereotipo della crisi la necessità europea di conoscere quelle realtà. «Ci accorgiamo che nei Paesi arabi si produce cultura (e ne abbiamo fame) quasi sempre e solo quando ci sono rivoluzioni, guerre, migrazioni di massa o crisi di grande rilevanza (come è stata l’intifada palestinese, l’11 settembre e la successiva guerra al terrore, le rivoluzioni arabe, il conflitto siriano e l’arrivo di Daesh). Solo allora gli editori chiedono di tradurre i romanzi, i giornali commissionano editoriali agli intellettuali e nei cinema arrivano i film, ma non c’è ancora un progetto culturale sul mondo arabo di lunga durata (tranne in alcuni rari e brillanti casi). Come si possono conoscere le dinamiche di lungo corso di uno Stato o di una regione se ci interessiamo a questi solo nei momenti di crisi?”» si domanda Comito che, nel 2012, ha fondato Editoriaraba, il principale sito web italiano sulla letteratura araba contemporanea. Per l’arabista, infatti, avremmo potuto comprendere meglio l’entità di quelle rivoluzioni anche solo leggendo le analisi dei demografi, che parlavano di una bomba demografica in procinto di scoppiare, o «leggere i romanzi che gli scrittori pubblicavano negli anni precedenti e i cui temi (frustrazione sociale, repressione, censura, migrazioni) sarebbero balzati agli onori delle cronache post-2011».
Le rivoluzioni non sono eventi improvvisi
E anche se l’unica rivoluzione riuscita risulta essere quella tunisina (nonostante la gravissima e pericolosa crisi economica che incombe), negli altri Paesi la situazione sociopolitica sembra essere peggiorata. «La censura e le incarcerazioni sono all’ordine del giorno in Egitto e in Siria. Tuttavia, proprio quella rivoluzione culturale, ignorata dall’Occidente, è andata avanti: gli artisti e gli intellettuali, oggi in esilio, hanno continuato a trasgredire e a opporsi con i lavori alla violenza dei regimi ancora al potere. Questo straordinario fermento creativo ha influenzato anche gli intellettuali e gli artisti di altre regioni, che non avevano vissuto quella stagione», chiarisce Moresi, che ricorda come tra il 2019 e il 2020 le manifestazioni (represse o bloccate dalla pandemia) abbiano coinvolto il Sudan, l’Iraq, il Libano e ancora Algeria ed Egitto. «Le rivoluzioni non sono eventi improvvisi, ma nascono da processi lenti che mutano pian piano le società», aggiunge la docente.
L’esilio degli intellettuali (in Europa)
Figlie di realtà differenti, le primavere arabe hanno avuto esiti diversi e a dieci anni da quei fatti, non sempre chi cercava di rivendicare un proprio spazio lo ha trovato. «Molti artisti, scrittori e intellettuali di Siria ed Egitto, per esempio, hanno lasciato il loro Paese. Alcuni sono in esilio in Europa, altri negli Stati Uniti. L’autore egiziano Ahmed Nagi, dopo la pubblicazione e la censura del suo romanzo, “Vita. Istruzioni per l’uso”, prima di riuscire a trasferirsi in America, finì in carcere insieme al suo editore. L’artista tunisina Emel Mathlouthi abita a New York e i membri del gruppo pop-rock libanese Mashrou Leila, censurati sia dall’autorità politica, sia da quella religiosa cristiana, si sono stabiliti al di là dell’Oceano. Il cantante Ramy Essam, oggi, vive in Svezia», racconta Comito. Che ricorda come in Francia e vivano, invece, molti intellettuali, come i siro-libanesi Farouk Mardam-Bey (editore), Hala Kodmani (giornalista) e la siriana Samar Yazbek.
L’eccezione di Berlino, capitale della cultura araba
E anche se l’Europa ha dimostrato, in più occasioni, di non aver colto la portata delle primavere arabe, da qualche anno, come patria d’esilio occidentale si è aggiunta anche la Germania, grazie alle aperture di Angela Merkel e al fermento culturale di Berlino, città che ha accolto giornalisti, scrittori, poeti, attivisti e musicisti dalla Siria che, come specificato da Comito, l’hanno resa la «capitale della cultura araba in Europa». «Quando nel tuo Paese non riesci più a svolgere il tuo lavoro perché sei minacciato, censurato e ostacolato in ogni modo dal potere che dovrebbe tutelarti e supportarti, l’esilio è l’unica strada. Non tutti, però, riescono ad andarsene: l’attivista egiziano Alaa Abdelfattah, una delle anime della rivoluzione del 2011, è ancora in carcere, nonostante gli appelli, le pressioni e le campagne che sono state attivate anche a livello internazionale», aggiunge la curatrice.
Se i governi (europei) ignorano i diritti degli altri
A distanza di anni e nonostante il flusso migratorio abbia portato un po’ di quella primavera araba (e i suoi prodotti culturali) anche in Occidente, i diversi Paesi europei, troppo impegnati a identificare (sempre e solo) come musulmani gli appartenenti a quei mondi, secondo Moresi, l’Europa ha dimostrato di «non aver imparato nulla da quei movimenti»: «Forse, il mantenimento di certi equilibri politici non consente una reale comprensione di ciò che è avvenuto e sta avvenendo. I governi europei continuano a portare avanti una politica che ignora le società civili e scende a patti con i peggiori dittatori, solo per portare a casa qualche accordo economico. Se dopo la morte di Giulio Regeni, l’incarcerazione di Patrick Zaki e di migliaia di altri giovani che lottano per i diritti umani in Egitto, il presidente francese Emmanuel Macron ha deciso di conferire la Légion d’honneur al generale al-Sisi, non credo ci sia ancora molto da discutere su ciò che l’Europa ha imparato dalle e sulle rivolte arabe del 2011». E su questo, in Italia, nelle ultime ore, il giornalista Corrado Augias, insignito della stessa onorificenza (la più alta della Repubblica francese) ha scelto di restituirla, riconsegnandola all’ambasciatore francese Christian Masset, per onorare la memoria del ricercatore italiano, torturato e ucciso al Cairo.
«In quale modo, le rivoluzioni arabe, con la loro dirompenza, ci hanno permesso di conoscere meglio quelle società, le loro dinamiche sociopolitiche, gli estremismi, ma, soprattutto, le difficoltà e le frustrazioni in cui si dibattevano i cittadini. Hanno messo l’Europa di fronte alle ipocrisie delle posizioni di alcuni leader europei che, per decenni, hanno chiuso un occhio (o entrambi) davanti alle violazioni dei diritti umani, alle democrazie di facciata, alle elezioni vinte con percentuali bulgare e agli oppositori incarcerati. È caduto quel velo davanti alla forze di siriani, tunisini, egiziani e libici che chiedevano diritti, riforme, libertà civili e, nel mentre, l’Europa scopriva che quei re con cui aveva stretto accordi fino al giorno prima erano nudi», conclude Comito.