La tragicommediaLa malattia melodrammatica e il carattere italiano, secondo Filippo Ceccarelli

Il bilancio di un anno e di un popolo del giornalista di Repubblica, autore del recente Invano. «L’Italia è una cosa seria e come tutte le cose serie, grandi e importanti è ambivalente. E noi oscilliamo sistematicamente tra l’autodenigrazione e il patriottismo»

Foto LaPresse - Andrea Panegrossi

In un anno disastroso come questo, è piacevole affidarsi a quei pochi appigli se non di fiducia nel futuro, quantomeno di serena accettazione di esso. La visione del mondo di Filippo Ceccarelli è sicuramente uno di essi. Perché di ogni avvenimento il giornalista di Repubblica e scrittore riesce a ricostruire l’eterna ciclicità e dunque, di fatto, a ritrovarne l’umanità. Depotenziando, in questo modo, anche lo sgomento e la paura di ciò che sta accadendo. (Il suo ultimo libro, Invano, è una lettura davvero imprescindibile per comprendere la politica e la società italiane). E così, per l’ultima intervista dell’anno, abbiamo provato a ripercorrere quanto è accaduto nel 2020.

Detesto, come molti, il termine “resiliente”.
Eh, ma ha vinto. È entrato anche nel piano.

Infatti, noi hater siamo sconfitti e, quindi, proviamo a usarla. La vera resilienza italiana è questa capacità di tornare a essere come prima appena l’Rt scende sotto una certa soglia e riprendere tutte le peggiori abitudini appena i numeri sembrano lasciare un po’ di tregua. All’inizio ci dicevamo che saremmo cambiati in meglio, poi ci siamo detti che saremmo cambiati in peggio. Invece non cambiamo affatto.
In realtà io penso che i tratti distintivi, i caratteri nazionali, vengano fuori in maniera ancora più espressiva del solito proprio in momenti di questo genere: di fronte a sua maestà il Disastro. Per quanto uno voglia dire o illudersi che nulla sarà più come prima e che cambierà tutto. Perché in momenti di questo genere sei obbligato a stabilire veramente chi sei: è una prova, come può esserlo stata la Grande guerra. E in una prova vengono fuori le cose che non puoi proprio nascondere.

Come ci stiamo comportando?
Lo so che può risultare banale, perché poi abbiamo fatto tutti quanti il liceo classico e può sembrare una smargiassata, però c’è una cosa molto precisa di Leopardi, non esattamente un ottimista, sugli italiani. Lui descriveva tre caratteristiche che noi abbiamo e che sono venute fuori pari nella stagione del virus. Sono il passeggio e quindi gli assembramenti nei paesi, sul corso, i bar o gli aperitivi; poi gli spettacoli, ma non gli spettacoli inteso come cinema o teatro, proprio gli spettacoli che noi tutti siamo portati a compiere, a volte come protagonisti, a volte come platea, a volte come registi; e poi le chiese come elemento sostitutivo di autorità civili e civiche. In queste tre cose hai l’Italia di sempre.

Abbiamo avuto anche degli alti, in mezzo a tanti bassi.
L’Italia è una cosa seria e come tutte le cose serie, grandi e importanti è ambivalente. E noi oscilliamo sistematicamente tra l’autodenigrazione, quella classica che tutti abbiamo in qualche maniera coltivato, e il patriottismo. La quantità di retorica che è uscita fuori in questi mesi è impressionante. Tanto che poi è stata immediatamente dimenticata per ragioni, ovviamente, di opportunità. Ha toccato il culmine quando sembrava che fossimo un modello per l’Europa e quindi tutti i “sono fiero di essere italiano”, i “sono orgoglioso”, i tricolori ai balconi, gli “amo l’Italia” e l’immancabile “mangiare italiano”, ma poi, in realtà, si sta come al solito: in bilico. Oltretutto è facile andare a trovare gli esempi dei disastri delle classi dirigenti italiane: Adua, Caporetto, il terremoto del 1980, la stessa Mani Pulite è un bel disastro di classe dirigente. Quindi oscilliamo tra auto-denigrazione e patriottismo retorico. Sempre, però, con la stessa storia o – come si dice adesso con quell’altro termine orribile – “narrazione”, per cui esiste un’Italia abietta a cui è agganciata saldamente la promessa di rigenerazione, di cui in qualche maniera ’sta resilienza fa parte, perché dovrebbe sistemare tutto.

Un’altra caratteristica è che sono gli stessi personaggi a oscillare tra questi due poli: retorica e auto-denigrazione. Un politico che in un certo momento è l’idolo della retorica rischia sempre di finire, pochi mesi dopo, nella polvere.
Questo ha a che fare col fatto che abbiamo un tratto distintivo nella grande espressività: siamo un paese di inventori di Stati Generali. Se tu pensi cosa sono stati gli Stati Generali… messi su quando sembrava che fossimo i primi della classe ma che, a rivederli adesso, ti fanno accapponare la pelle. Il Presidente del Consiglio in mezzo a tutti i giardini, con le siepi ben rasate, in un posto effettivamente molto bello che faceva promesse immaginifiche: «piantiamo un milione di alberi». Ma tu sai che vuol dire piantare un milione di alberi? Eppure si sono dette cose di questo tipo in mezzo a cantanti che facevano le videoconferenze e si mettevano a cantare… o la commissione Colao di cui, a un certo punto, si è detto che mancassero le donne e allora nuova infornata di nomine. Tu capisci che questa eccedenza è tutta nostra?

Invece la tragedia è arrivata.
Il sentimento del tragico è arrivato, perché se uno guarda il dato dei decessi abbiamo numeri tremendi. Decine di migliaia di persone che sono morte e, forse, potevano essere risparmiate. Però c’è una commistione molto forte tra questi due poli: il tragico e, dall’altro, la commedia. Quindi niente è rimasto serio più di un giorno e mezzo. Ma dall’inizio. Se tu pensi a quelli che facevano la brace sul tetto a Palermo e che, quando hanno visto arrivare i poliziotti con gli elicotteri, gli hanno tirato contro i fuochi d’artificio, beh, quella era una specie di profezia di quello che sarebbe successo poi per le strade all’inizio della seconda ondata, quando, appunto, la polizia veniva accolta con le castagnole, i razzi e i petardi.

Vedremo cosa succederà a Capodanno.
E poi c’era il tipo che portava il pappagallo a passeggio per scappare alla quarantena o il runner inseguito sulla spiaggia dalle forze dell’ordine, commentato in diretta da Barbara D’Urso…

Il nostro equivalente dell’inseguimento di OJ Simpson.
E le le frecce tricolori! Quella è una cosa che ha dei tratti anche simbolici, perché le frecce tricolori rappresentano la bandiera e sono sempre invocate come simbolo di eccellenza. Le hanno mandate in giro per l’Italia a fine lockdown col risultato che la gente si ammassava per vederle! Tu capisci che vuol dire celebrare qualcosa che dovrebbe, in qualche modo, certificare la serietà di un paese che esce fuori da un periodo difficile, ma lo fai con degli aeroplani che fanno la scia e tutta la gente si ammassa a vederli? È successo in tutte le città. E le hanno mandate pure ad Assisi, da San Francesco. Che c’entra San Francesco con le frecce, se c’è un santo lontano dalle Frecce Tricolori…

Oltretutto ad Assisi sono andate a inizio ottobre, quando già cominciava la seconda ondata.
E ho trovato molto interessante anche la storia di quello che gridava dai terrazzi «Ce la faremo!». Si chiama Fabio, te lo ricordi?

Subito assurto a simbolo nazionale.
È finito subito in televisione e lì gli hanno fatto rifare l’urlo, col conduttore che faceva finta di aver paura perché era troppo forte. E quindi scenette, balletti, commedia e poi, a un certo punto, improvvisamente, quando l’ha rifatto ancora una volta tutto dicevano «mah, è un po’ più moscio», «ancora strilla questo?».

Il marziano a Roma. Ma c’è anche la signora di «non ce n’è Coviddi» che invece ha ormai una carriera avviata.
Con Lele Mora che le cura tutta l’operazione, capito? Per me Lele Mora è una figura decisiva… io lo dico sempre: ho cominciato a lavorare con Aldo Moro e sono arrivato a Lele Mora. Invece ho visto che Angela, si chiama così, in questi giorni è stata a Roma e s’è fatta le foto alla fontana del Gianicolo e al Colosseo: grandi incontri straordinari. Mentre qualche giorno fa è entrata in polemica col sindaco, Leoluca Orlando che l’ha definita la «vergogna» di Palermo. Allora lei che ormai è diventata un soggetto politico autonomo, è andata in giro e ha fatto delle riprese di qualche cumulo di monnezza, e ha detto «io sono la vergogna, guardi qua Sindaco, guardi qua». Da questo punto di vista si può quasi fare a meno dei pupazzi della politica, perché il mondo della disintermediazione social è un mondo di vivissima e interessantissima vitalità sui tratti nazionali.

Cosa ricordi dell’Italia prima del virus?
C’era Bugo come prima notizia sui siti, gli ennesimi strascichi della lite tra Bugo e Morgan, c’era la legge elettorale che non manca mai, c’era l’ultima puntata della storia di Berlusconi e della Pascale, c’era Renzi sull’Himalaya, c’erano i Cinquestelle che nascondevano le auto blu alla manifestazione e c’era Di Maio che parlava di «vairus». Quindi è un’Italia vertiginosamente cambiata, ma sempre la stessa.

Tra le tante cose successe quest’anno anche la solita riffa di anniversari. Ma la coincidenza dei lockdown con gli anniversari che hanno coinvolto Sordi, Fellini e Tognazzi ci hanno dato la meravigliosa occasione di rivedere tanti film. Secondo te quelle maschere di italiano esistono ancora? O «non ce n’è Coviddi» è una cosa troppo diversa?
Ho un’idea abbastanza temeraria da cui, però, mi è difficile tornare indietro. Io credo che la commedia all’italiana si sia trasferita nella rete. La televisione generalista e il cinema, avevamo, in qualche misura, costruito delle maschere che andavano bene per tutti ed erano interpretate dai mostri sacri. E in buona sostanza quella era la commedia italiana. Ecco, oggi quello non c’è più. Ma è come se fossimo ritornati al ’500, alla commedia dell’arte e a quelle maschere, ossia dei poveracci che giravano per l’Italia e si conquistavano, arrabattandosi, il loro pubblico. E oggi di maschere così, oltre quelle che abbiamo già citato, ce ne sono a bizzeffe in rete. Perché c’è stata un’esplosione di comicità, di espressività e di rappresentazione che, secondo me, va proprio alle radici, in un tempo molto lontano, che, paradossalmente, è stato ripristinato o riattivato dalla tecnologia.

Mi fai un esempio?
Tra i personaggi più interessanti che ha fatto Sordi c’è sicuramente Nando Moriconi, l’americano a Roma, che è proprio la macchietta dell’esterofilo. È un personaggio comunque complicato perché veste da poliziotto, fa tanti gesti strani, parla una lingua tutta sua, ecco, io non so se hai visto qualche video di trapper, non solo i più famosi, anche quelli che si vedono solo in rete. Ma non fanno un’imitazione smaccata di tutto ciò che è americano che è identica a quella che faceva Sordi? Fanno gesti per imitazione, parlano una lingua di imitazione proprio come Sordi o come cantava Renato Carosone in “Tu vuò fa’ l’americano”. Imitano gli afroamericani, ma quelli lì si ammazzano davvero, qui da noi, per fortuna, non si ammazza nessuno. Ecco queste sono cose che rivivono o si riattivano, che riemergono da un passato lontanissimo, più lontano della televisione e del cinema. Ma, ti ripeto, sono tante le cose che rivivono dentro la tecnologia.

Questa è così azzeccata che mi viene voglia di chiedertene un’altra.
Non è pure pieno di trapper mammisti? E il trapper mammista non è una maschera italiana?

Invece della capacità di scherzare cosa pensi? È rimasta immutata?
E poi ci sono i Fescennini, gli sberleffi, l’arte di farsi male e di prendersi per il culo che noi abbiamo… è un’altra cosa esasperante, ma antichissima. Se vai a cercare scopri che esistono addirittura dei proiettili di piombo che si tiravano dentro le città assediate con su scritte delle cose di dileggio tipo «lo sappiamo che avete fame ma fate finta di niente». Per non dire quello che succedeva nel Medioevo tra i comuni toscani: i campanili con su scritte delle cose per prendere in giro gli avversari, i somari che venivano chiamati con i nomi dei nemici, l’impiccagione dei fantocci, cioè tutte cose che se scrolli sul telefonino le ritrovi oggi identiche: dallo sberleffo fino al bullismo. Anzi, tra i personaggi più interessanti che trovi sulla rete ci sono, non a caso, gli eredi del miles gloriosus – che poi diventa la maschera del Capitano nella commedia dell’arte – sono quelli che hanno quel costante atteggiamento da «reggeteme, altrimenti te faccio qua, te faccio là». Così come al Nord alcuni personaggi sembrano usciti fuori dai cinepanettoni.

L’altra grande difficoltà è fare la parodia di personaggi che sono già da soli parodici.
Certo, per non parlare del gossip con tutta la ricaduta trash che ha: le corna, le storie, le famiglie che litigano. Quella roba là sono le novelle. Se uno si va a riguardare le cose del Trecento, cose che abbiamo studiato perfino a scuola distrattamente, scopre che sono molto simili alle nostre. Anche allora ridevano di personaggi e facevano gossip con personaggi realmente esistenti. I loro nomi e cognomi a noi non dicono niente, ma a chi li leggeva allora sì. Erano donne esistenti. E adesso la stoffa ti potrà sembrare più grossa, ma la storia di Max Caltagirone di Pamela Prati sembra una novella del Decamerone: una donna che ha una certa età, che deve rilanciarsi, allora le amiche le creano un uomo che non esiste con un profilo che non esiste, ma lei sostiene che esista… ma una storia così è possibile solo in Italia. Così come la proliferazione di figure maschili che vivono a contatto permanente con le donne. Pensa ai tronisti o a quelli che fanno da accompagnamento ai programmi di Maria De Filippi con Tina Cipollari e Gemma Galgani, o a Vacchi che balla sui tacchi, quella è un’altra cosa anticamente italiana che è il cicisbeo. Che non ha niente a che fare neanche con gli orientamenti sessuali. Ed è l’altra faccia del gallismo, cioè dell’italiano che sta sempre a pensare a scopare. Quest’altra faccia, però, esisteva già nel ’700, li chiamavano i cicisbei e, se vai a leggere i libri dei grandi patrioti, scopri che Mazzini, Cesare Balbo, Gioberti, lo stesso Garibaldi erano molto interessati alla questione.

E dall’estero come ci vedono?
Penso che nella ritrosia e nella diffidenza nei confronti degli italiani da parte di quelli che abbiamo definito i «paesi frugali» c’erano sicuramente delle riflessioni importanti sul nostro debito pubblico, ma c’era anche un timore che non potevano esplicitare, che li avremmo spesi tutti per comprare prodotti di bellezza.

Allo stesso modo aumenta il nostro grado di permalosità e di suscettibilità. Pure uno sketch, magari non riuscito, su una donna che fa la spesa sexy al supermercato, fa perdere il posto di lavoro a tante persone, porta alla chiusura di un programma e a bordate di offese private alla protagonista. Questa è una novità? Siamo diventati più sensibili?
A naso direi che è qualcosa da mettere in relazione al narcisismo che si è terribilmente esteso. E il narcisismo è figlio di un tessuto sociale individualista che, a sua volta, è figlio delle dissoluzione dei legami sociali. Nel momento in cui non esiste più una dimensione collettiva, non ci sono più storie che riguardano tutti, non c’è più attenzione ai destini comuni e, quindi, chissenefrega degli altri, allora l’ego viene naturalmente a espandersi. Ma quando un ego espanso viene sbertucciato e ferito, la cosa acquista grandissimo rilievo. Perché, vedi, assieme alla commedia, abbiamo una lunga tradizione di sdegno e di «oddio come hanno osato» che è il melodramma. E che diventa «oddio, hanno fatto twerking in televisione», «hanno mostrato le chiappe», «censuriamo». Questo prendersi così sul serio – ma è un discorso che faccio sugli altri e poi la prima volta che ti prende un po’ in giro un giornalista ci rimani malissimo e non vuoi uscire più di casa – si può incasellare davvero nell’altra nostra specialità nazionale che è il melodramma. Perché nel melodramma abbondano sdegno, lacrime e offese che non si possono tollerare. Chiedi scusa! È un narcisismo da personaggi dell’opera o, coma la chiamava, giustamente, Gramsci: la malattia melodrammatica. E al melodramma puoi perfino legare anche il successo del complottismo. La tendenza italiana all’intrigo, al fatto che ci siano nell’ombra dei cattivi cattivissimi – pensa ai cattivi della lirica – che sono lì di continuo a tramare contro il bene pubblico.

Una storia che mescola sdegno e commedia è questa di Suarez e del suo esame farsesco.
«Bambino porta cocumella». Ma in quale altro posto del mondo trovi una storia così? Ed è arrivata fino al Ministero. Ti costringono a immaginare che le segreterie dei ministri si sentano per questioni di questo genere. E poi ti chiedi perché la gente adori leggere le intercettazioni? Ma è ovvio.