Nel 2021, l’approccio e le decisioni del governo non cambieranno a causa di motivi ideologici e per l’incapacità di saper fare meglio. Giuseppe Conte fa finta di ascoltare, abbozza qualche cambiamento formale sulla cabina di regia e consegna una nuova versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) del tutto simile, per non dire esattamente uguale, a quella, pessima, già resa nota dopo un Consiglio dei ministri alle 2 di notte.
I motivi sono evidenti. Da una parte basta ripercorrere la genesi del nostro attuale PNRR. Dall’altra l’ideologia, si potrebbe dire la modesta parte di ideologia, che caratterizza questo governo il cui vero collante è solo l’assoluta necessità di mantenere vivi gli afflati di potere personale di chi lo sostiene apertamente in modo goffo (Cinquestelle e Pd) e nell’ombra (D’Alema e consorterie varie)
LA GENESI DEL PNRR
Al governo manca una qualsiasi visione del paese che dobbiamo diventare. Non si è articolata nemmeno la bozza di un percorso credibile di riforme se non l’enunciazione del tutto vacua di slogan come la digitalizzazione, l’inclusione, i giovani ma anche gli anziani, la crescita ma anche non lasceremo nessuno indietro, i “ristori” alle imprese ma anche le famiglie, i rubinetti ma anche i presepi.
Non c’è nulla. Il vuoto assoluto.
Manca un’analisi seria (ma anche poco seria…) dei motivi per i quali l’Italia non cresce e accumula debito da 25 anni, una consapevolezza della crisi demografica, un approfondimento della crescente spaccatura tra garantiti e no, tra nord e sud, tra Stato e mercato.
Si può discutere sui motivi per cui questi approfondimenti culturali, economici e sociali siano assenti anche se a me pare che la causa principe sia il difetto di competenza e di capacità di sintesi delle variabili in gioco. Conte è essenzialmente incapace di fare una sintesi originale e credibile di quanto sopra e di indicare una sua visione, anche se è un eccellente galleggiatore che si propone a un’ampia popolazione come rassicurante (salvo poi avere il maggiore numero di decessi in Europa), in modi urbani e non urlati (ricordando a tutti che l’alternativa era Matteo Salvini).
Ma resta un incapace come dimostrato da mille errori, slogan sbagliati (ad esempio «il Mes crea deficit per le future generazioni») per lo più suggeriti dallo spin doctor Rocco Casalino che altro non è che un mescolarsi di superficialità alla caccia di consenso del popolo, priva di capacità di approfondimento.
L’incapacità travestita da amico del popolo sfocia in un disastro, ma a Casalino, Conte e aventi causa questo interessa poco, perché l’alternativa, un governo capace, significherebbe per loro sprofondare nell’anonimato da cui provengono senza alcuna possibilità di risollevarsi proprio in quanto essenzialmente… incapaci.
Dovendo, da incapaci, preparare un PNRR senza alcuna sintesi o visione del paese hanno fatto ciò che chiunque avrebbe fatto al loro posto e cioè hanno chiesto ai sottoposti (scelti in precedenza non secondo criteri di competenza ma solo per appartenenza) di «chiedere» soldi. Alcuni ministeri sono stati quindi incaricati di fare la lista della spesa e sono emersi i famosi 600 progetti.
Poi la sintesi non è stata fatta partendo dalle vere necessità del paese, o dalla analisi costi-benefici di ciascun progetto, ma semplicemente attribuendo i progetti ai sei capitoli dettati dall’Europa, anche qui con errori logici evidenti, ma con un criterio costante e cioè l’apparire politicamente corretti, aderenti agli slogan del giorno, vuoti e vacui ma inattaccabili.
In sintesi la scelta di un leader formale e privo di qualsiasi contenuto è sempre la forma invece che la sostanza, il processo invece che il contenuto, apparire invece che essere.
Conte è questo: forma, apparenza e processo. E ha applicato la sua natura al problema.
Il dramma è il risultato che appunto resta forma e non sostanza (nessun riferimento a parametri oggettivi che saranno invece fondamentali per avere nel concreto i fondi), processo e non contenuto (raccolta compilativa di capitoli di spesa e non analisi degli obiettivi da raggiungere) e apparenza e non verità (slogan vuoti da convegno e nessun impatto sui veri problemi del paese).
Il PNRR manca perciò di qualsiasi anima, passione, ambizione , aspirazione. Non motiva e non coinvolge nessuno, ed è lontanissimo dall’essere l’inizio di una trasformazione vera di cui il paese ha disperatamente bisogno.
Ne mai potrebbe esserlo se partorito da un governo che nasce contro, senza alcuna unità, senza una visione politica o sociale concreta e realizzabile.
L’IDEOLOGIA DEL GOVERNO
Parlare di ideologia del governo significherebbe accreditare un eccessivo contenuto al governo stesso perché, come è noto, questo governo e le persone che lo compongono sono animate dall’unica ideologia di conservare una dose di potere personale ampiamente superiore a quanto mai avrebbero potuto sperare in un contesto meritocratico. Nel governo di 22 ministri, incluso Conte, le esperienze di gestione di un Comune, una Regione, un’impresa, un sindacato sono pressoché nulle. Solo Lorenzo Guerini è stato sindaco di Lodi, e Teresa Bellanova ha avuto incarichi di rilievo per vent’anni nel sindacato.
Per contro, Dario Franceschini ha perso molte elezioni a cui ha partecipato, salvo essere ripescato in lista bloccata, così come Francesco Boccia che ha tentato la sorte tre volte in Puglia sempre sconfitto nelle primarie da Nichi Vendola e poi da Michele Emiliano. Sandra Zampa è stata brutalmente sconfitta nella rossa Ferrara dalla Lega e, prima, è stata battuta alle primarie Pd a Bologna. Più molti altri fulgidi esempi di sfiducia nel territorio a membri del governo tra chi li conosce davvero.
Ma qualcuno li ha scelti e ci deve essere un minimo di collante ideologico. Chi li ha scelti è essenzialmente Luigi Di Maio tra un gruppo di evidenti incompetenti selezionati con l’unico criterio del tragico uno vale uno. Quindi l’unica ideologia è appunto non valere assolutamente nulla, cosa ampiamente e in modo sempre più evidente dimostrata da Di Maio stesso, Lucia Azzolina, Nunzia Catalfo, Paola Pisano, Fabiana Dadone, Alfonso Bonafede.
Conte è la sublimazione di questa situazione, dapprima nominato per non contare nulla nel consolato dei due leader Salvini/Di Maio che si accreditano due solenni imbecillità come il reddito di cittadinanza e quota 100, facendo la gara a chi spreca di più. Poi perfetto per il cambio di maggioranza post Papeete. Ma sempre di base incompetente come dimostrato nelle occasioni in cui non parla per slogan ma di sostanza e senza la protezione delle domande preconfezionate.
Diversa la logica per il Pd che tuttavia ha nominato una serie di ministri di stretta osservanza della corrente ideologica che nel Pd fa capo all’area un tempo dalemiana. La corrente di pensiero del partito che, dopo l’arrivo di Matteo Renzi, ha in modo quasi ossessivo ingaggiato una campagna prima di resistenza passiva e poi di ostilità aperta al segretario, fino alla clamorosa bocciatura del referendum 2016 e la successiva caduta del governo.
Questa corrente, dopo la breve parentesi di Paolo Gentiloni, ha eletto un segretario inesistente come Nicola Zingaretti ed è rappresentata da Franceschini, Boccia, Roberto Gualtieri, Enzo Amendola (anche lui sconfitto alle elezioni 2018), Pepper Provenzano e ovviamente Roberto Speranza che di D’Alema è compagno di partito in via ufficiale e non surrettizia come tutti gli altri.
La nomina di Domenico Arcuri, uno che ha molto più potere e molti meno controlli di un ministro, notoriamente sponsorizzata da D’Alema è l’evidenza ulteriore di questa matrice.
L’ideologia di D’Alema è nota. Lo statalismo profondo, la diffidenza che arriva all’aperta ostilità per le imprese, la convinzione assoluta che l’intermediazione dello Stato e della politica sia da preferire al mercato, la visione del mercato come una forma gravemente distorsiva dell’equità (esclusi però i casi in cui il mercato è amico come MPS quando compra prima Banca del Salento e poi Antonveneta e sappiamo come è finita, o meglio ancora quando Colaninno privatizza Telecom e anche li sappiamo come è finita), un legame quasi di ammirazione per la Cina considerata interlocutore affidabile e capace di bilanciare il capitalismo liberista e selvaggio degli Stati Uniti sullo scacchiere mondiale. La via della seta non è certo farina dal sacco dell’ex assistente dello stadio Maradona e nemmeno la convinzione che il neoliberismo occidentale abbia fallito e «l’Asia più solidaristica abbia rettò meglio».
In quell’ideologia c’èla convinzione che qualche privazione di libertà per il bene comune in fondo sia più che accettabile, l’affermazione dell’Europa solo se abbraccia politiche keynesiane di spesa anche a debito e non invece se riflette il calvinismo del nord.
In Italia questo non è altro che una riedizione del catto-comunismo che ha segnato trent’anni di storia con nefaste conseguenze sul debito e sulla crescita.
La sintesi migliore dell’ideologia descritta è la pervicace, assoluta e inossidabile convinzione che la redistribuzione della ricchezza sia più importante della creazione di ricchezza che ne è palesemente un presupposto indispensabile. Un’idiozia evidente, o meglio un’inversione ben descritta a suo tempo da Max Weber tra i fini e i mezzi (o in modo più antico e prosaico ma non lontano dalla realtà attuale le volpi e i leoni di Machiavelli).
Così la redistribuzione diventa un mezzo per rafforzare il proprio potere e non il vero fine, e il modo con il quale il principe-volpe manca alla propria parola per conservare il potere, diventa più che giustificato dalla presunta superiorità morale della sinistra (da Berlinguer in poi).
Purtroppo l’emergere di una destra populista, arruffona, poco credibile ha dato un’ottima occasione per risorgere a un’ideologia morta e sepolta dalla storia e dall’esperienza fallita di tutti quei paesi che l’hanno anche solo sfiorata. Né la destra ha saputo proporre un “principe” degno di questo nome negli ultimi trent’anni, una persona in grado di coniugare sviluppo con equità e redistribuzione della ricchezza, forse né leone né volpe ma più prosaicamente… un Re leone alla Mufasa che richiama il figlio alla dignità e al senso del dovere della carica.
Ma tant’è oggi abbiamo questi e i risultati nel PNRR sono evidenti. L’ideologia comporta una fortissima intermediazione dello Stato e nessuna fiducia nei privati siano essi cittadini o imprese, lo slogan “verde” utilizzato senza avere nessun approfondimento sulla natura e fonte delle emissioni, ma solo come grimaldello per un ulteriore intervento dello Stato nell’economia, la digitalizzazione come opportunità per acquisire controllo dei cittadini e altre trovate del genere.
Nel PNRR, non a caso, il turismo è negletto. Il turismo non è patrimonio da tutelare per questa ideologia. La cultura sì, purchè omologata, ma il turismo no perché è roba d ricchi.
Il supporto alle imprese è pressoché inesistente, a meno che le imprese siano pubbliche con manager amici e nominati dallo Stato.
La crescita non è un problema perché il debito è sempre a disposizione con l’Europa che lo garantisce attraverso il calvinismo virtuoso della Germania e dei paesi frugali. Si tratta di un dovere di solidarietà europea, un’Europa che se non è solidale non ha peraltro motivo di esistere, trascurando ovviamente il fatto che i frugali non hanno tutti i torti a pretendere, viste le promesse disattese per 25 anni, che gli italiani non sprechino le risorse.
Una cultura che parla sempre di diritti e non di doveri in Europa, nella scuola, nella società, nel lavoro. Come se si potesse sperare sempre che il diritto a qualche cosa non nascesse anche dal dovere di crearne i presupposti logici con il lavoro, l’impegno e la responsabilità.
Sono ideologie davvero superate dalla storia, dall’esperienza totalmente fallimentare di tutti i regimi statalisti. Il paradosso della storia è proprio la Cina, regime politicamente comunista ed economicamente ultraliberista che forza nei fatti l’Occidente a diventare più liberista di quanto vorrebbe decretandone nello stesso tempo una crisi strutturale.
È proprio la Cina con il suo dumping sociale estremo, con le condizioni del lavoro inaccettabili per i nostri standard, con politiche protezionistiche ai limiti (oltre i limiti) della legalità, ad avere forzato in Occidente la necessità di adeguarsi fino a provocare l’impoverimento della classe media che ne è diretta conseguenza.
In questi 30 anni l’emergere della Cina e il conseguente deterioramento della condizione sociale in Occidente è poi sfociato in un populismo di protesta di destra becero (Trump ma anche Salvini o Afd in Germania e Le Pen in Francia ) o in un populismo di sinistra senza alcuna logica (Cinquestelle o Podemos). E ancora più paradossalmente il dibattito sull’equità sociale trascura in toto gli immensi e concentrati patrimoni che si stanno creando in Cina e in Asia proprio e anche per effetto della globalizzazione.
Il paradosso sta nell’ammirare un regime illiberale, contro ogni diritto umano e personale, proprio per i risultati economici ottenuti in un contesto ultra-liberista e ineguale, e poi trasferire, invertendoli, i presupposti nel nostro mondo occidentale che è, per fortuna, libero, con un livello di welfare elevatissimo e con risultati economici molto inferiori.
Questa ideologia è pervasiva nel PNRR ed è per questo che la sua approvazione così come è sarebbe gravissima per l’Italia, un’abdicazione assoluta alle residue modeste possibilità di restare agganciati all’Europa… e non alla Cina e ai suoi nuovi ricchi che verrebbero poi a comprarci per un piatto di lenticchie.
COSA BISOGNEREBBE FARE
Modeste revisioni al PNRR qua e là migliorebbero la situazione ma non cambierebbero per nulla il quadro di fondo.
Personalmente ritengo che Matteo Renzi e i suoi 18 senatori, decisivi per il governo, non debbano cadere nella trappola della paura delle elezioni anticipate. Dovrebbero ben capire che a due anni data, quando le elezioni ci saranno davvero, nessuno di loro e tanto meno i loro leader (Renzi, Maria Elena Boschi, Luigi Marattin e molti altri) sarà lontanamente accolto dal Pd… con un Parlamento con 345 persone in meno rispetto a oggi. Conseguentemente dovrebbero togliere l’appoggio al governo a gennaio, per un atto di coerenza politica non avendo nulla da perdere e all’opposto molto onore nella coerenza politica.
Il centrodestra dovrebbe riconoscere che le elezioni sono palesemente impossibili e quindi dare immediata, palese e trasparente disponibilità a sostenere un governo di competenti che possa evitare il definitivo collasso del paese, per poi competere in modo aperto per la guida del paese dopo le elezioni del Presidente della Repubblica nel 2023. Ugualmente la Lega dovrebbe completare con Giancarlo Giorgetti l’approdo nel Partito popolare europeo e creare un legame geopolitico con la nuova presidenza americana, esplicitando il grave rischio a cui è sottoposta l’Italia con l’ideologia filocinese imperante presso una parte rilevante della politica.
Nel Pd la pattuglia di senatori riformisti veri (Andrea Marcucci, Tommaso Nannicini e altri) dovrebbero esplicitamente segnalare il loro profondo dissenso per la dalemizzazione del partito. Inutile dire che la linea la definiscono gli iscritti, quando nessuno si sogna nemmeno di consultarli. Il Pd in Senato conta trentacinque senatori inclusi alcuni “dissidenti silenziosi”. Quindi nella sostanza circa trenta, numero alla fine pressoché irrilevante nonostante le ambizioni presidenziali di molti nel Pd e affini che continuano a definirne le scelte.
Inutile chiedere qualche cosa ai Cinquestelle, la cui agonia è il più grosso problema della legislatura. Sono politicamente defunti, lo sanno benissimo, non hanno alcuna cultura né politica né di altra natura e sono però ben trecento in Parlamento. Progressivamente usciranno dai gruppi parlamentari nell’illusione di trovare approdo altrove per la prossima legislatura, ma senza alcuna speranza. Schegge impazzite per due anni, con il solo risultato di paralizzare qualsiasi tentativo di ripresa del paese.
Carlo Calenda, Marco Bentivogli, Pietro Ichino, Sabino Cassese, così come Guodo Crosetto e Giancarlo Giorgetti, ma anche Renzi se alla fine abbandonasse desideri di personalismo, potrebbero sia pure con tutti i distinguo della loro provenienza culturale e politica, essere di grande sostegno a un governo di competenti. E il sostegno parlamentare sarebbe sempre e comunque assicurato dai Cinquestelle molto desiderosi di restare attaccati alla poltrona di parlamentare.
Se Mario Draghi fosse disponibile sarebbe soluzione con grandissimo standing internazionale e nazionale. Se non lo fosse per giustificati motivi, non ultimo per dover avere a che fare con un Parlamento in cui siedono trecento Cinquestelle e almeno altri centcinquanta populisti di varia specie) altre personalità potrebbero esserlo.
Il riferimento all’esperienza per molti versi negativa del governo di Mario Monti (un’altra delle occasioni perse dall’Italia) è totalmente improprio. In primis perché Draghi è già nella storia invece che ambire disperatamente ad entrare nella storia, poi perché onestamente credo che il disastro potenziale di questo esecutivo sia ben maggiore del rischio rappresentato all’epoca dal governo Berlusconi nel 2011 (la cui caduta peraltro fu fortemente intermediata dalla solita ideologia) e infine perché l’aggancio all’Europa, quella vera di Angela Merkel, è un’opportunità positiva e non come nel 2011 la difesa a qualsiasi costo di un equilibrio instabile in Europa.
Il compito del leader o del principe è molto difficile. Bisogna avere uno scopo, una visione e saperla comunicare. La visione deve essere attrattiva per tutti o per molti ed essere nel lungo termine sostenibile. Deve essere una visione anche etica in cui i benefici che inevitabilmente arrivano al principe siano paralleli al benessere del popolo.
Per conseguenza deve essere una visione che esiste davvero, non solo apparenza e parole.
Infine il leader deve essere pronto a lasciare il proprio incarico non appena la sua leadership forte non fosse più strettamente necessaria e avere qualcosa di soddisfacente con sé stesso anche dopo la fine della propria leadership.
La visione per me dovrebbe essere ritornare a crescere come e più del resto dell’Europa, riformare in modo moderno la pubblica amministrazione e garantire la sostenibilità del debito pubblico per le future generazioni, attraverso un’azione di governo mirata alle tante vere riforme di cui si parla da anni.
La visione è crescere per non soccombere sotto il peso del debito, riformare per non bloccare, e dare un opportunità ai giovani per riuscire a proteggere nel tempo un sempre maggiore numero di anziani.
La visione di Conte è rimanere lì dove gli è capitato di essere, offrire scampoli di sussidi estemporanei e di breve periodo un po’ a tutti (ma soprattutto agli amici vicini nell’urna) per essere popolare, ma allo stesso tempo non fare nulla o quasi nel dubbio di scontentare qualcuno che possa farlo cadere.
Un po’ poco per essere credibile ormai. Di certo totalmente insufficiente per portare l’Italia dove merita di essere.