Qualcuno di voi conosce l’indirizzo di Shonda Rhimes? Devo mandarle il mio curriculum acciocché possa investire parte dei cento milioni che le ha dato Netflix per farsi insegnare l’Italia da me. Ne ha molto bisogno.
Prima di arrivare alla regina nera (d’America o d’Inghilterra, dipende se stiamo parlando di realtà o di finzione), però, bisogna partire da un omosessuale bianco. No, non Ryan Murphy, cui Netflix di milioni ne ha dati trecento (sul mercato delle multinazionali televisive, gay bianco vale tre volte donna nera, per chi tiene il conto delle quote suscettibili). Poi passeremo anche da lui, ma l’uomo del giorno non l’avete mai sentito nominare, e si chiama Chris Van Dusen.
Un giorno del 2004 va a parlare con Shonda Rhimes: lei è solo una promessa (ha scritto la puntata pilota di Grey’s Anatomy, che diventerà l’ultimo successo generalista in mezzo alla frammentazione, mentre dava il biberon alla prima figlia); lui è uscito dall’università e vuole farle da assistente.
Qui, avrebbe frignato che lui ha studiato e ha diritto a un lavoro qualificato; lì, fa l’assistente per tre anni, poi diventa sceneggiatore, e adesso, sedici anni dopo, è il responsabile della serie natalizia di Netflix, la prima produzione del contratto centomilionario di Shonda: Bridgerton. (Una volta questi percorsi qui li avevamo anche noi: si chiamavano gavetta; poi abbiamo deciso che preferivamo lagnarci del precariato che darci da fare).
Tra gli sceneggiati che ha inventato Shonda prima d’andarsene dalla Disney (proprietaria della rete Abc su cui andavano le sue produzioni) ce n’è uno durato una sola stagione, nonostante la fama di re Mida della signora. S’intitolava Still Star-Crossed. Era ambientato dopo la morte di Romeo e Giulietta, quando il principe, per pacificare Verona, faceva sposare un Montecchi e una Capuleti.
Metà dei protagonisti erano neri, che è una cosa di cui i giornalisti americani vogliono sempre parlare, e per la quale Shonda s’innervosisce sempre, essendo la sua linea «è così nella realtà, cosa ci sarà mai di strano se è così sullo schermo». Che è vero se parli d’un ospedale o d’una stazione dei vigili del fuoco o d’una Casa Bianca (Grey’s Anatomy, Station 19, Scandal) nel ventunesimo secolo; un po’ meno se parli della Verona del ’600. Forse la linea dovrebbe essere «m’andava di farli neri, embè? non vi sfuggirà che trattasi di opera di fantasia» – ma nessuno osa suggerire le parole a una le cui parole sono pagate cento milioni di dollari, e gli americani non sanno la letteratura francese, figuriamoci la geografia italiana.
Quindi, a un giornale americano che le chiedeva dei Capuleti neri, Shonda rispose che era uno stupore molto ignorante: Verona era multietnica, come tutte le città portuali. Nessuno osò obiettarle che era una licenza poetica di Shakespeare: a Verona non c’è davvero il mare. Ma se ci vuoi il mare va benissimo; pure se vuoi Giulietta nera, figuriamoci: chi osa contraddirti.
Con queste premesse si arriva a Bridgerton, sceneggiato ambientato nella Londra d’inizio Ottocento: la regina è nera, e così una parte notevole dell’aristocrazia. L’autrice dei libri da cui la serie è tratta ha ritenuto di specificare al Times che è stata una scelta deliberata: chi l’avrebbe mai detto.
Pensavamo, noi innocenti, che fosse una distrazione, mettere a fare la moglie di Giorgio III una nera che ha fatto a teatro un Otello in cui Otello era una lesbica. (Dalle distrazioni di casting nascono per la verità le cose migliori. Miranda Bailey, capa dei praticanti all’inizio di Grey’s Anatomy, nella sceneggiatura era descritta come una bionda. E invece presero Chandra Wilson, che – oltre a essere l’unica in mezzo a quel canile a saper recitare – rese col suo essere nera assai più divertente il fatto che gli apprendisti la chiamassero «la nazista»).
La ricetta di Bridgerton è piuttosto semplice: due parti di Gossip Girl (ma nel finale di stagione si svela chi sia l’autrice dei bollettini pettegoli: come faranno col seguito, senza la narratrice misteriosa?); una parte di Cenerentola (mille interviste, e nessuno che chieda a Van Dusen come mai le sorelle Featherington siano uguali ad Anastasia e Genoveffa); due parti di Orgoglio e pregiudizio; due parti di Piccole donne (non si dà storia in costume senza una scema che si crede intelligente e che invece di sposarsi come le altre vuol fare la scrittrice); tre parti di Cinquanta sfumature (il fatal flaw, come lo chiamano nelle scuole di sceneggiatura aristoteliche: lui che sembra cattivo ma ha solo avuto l’infanzia traumatica, dalla quale lei lo redime col suo amore – lo specifico per chi, non avendolo letto, crede che Cinquanta sfumature sia roba di sesso); dieci parti di tv delle verdure, ma a questo ci arriviamo dopo.
Prima dobbiamo occuparci delle ragioni per cui Shonda ha bisogno di me. Non solo per sapere se a Verona c’è il mare. Anche per sapere che, se l’eroe spiega all’eroina che esiste la masturbazione, e quella torna a casa, chiude la porta della sua stanza, e si tocca, e nella scena successiva è al clavicembalo che compone una canzone, quella canzone non può non essere Albachiara, perdinci (lo so che ad Albachiara mancavano due secoli, ma Baz Luhrmann ci ha educati a non meravigliarci della musica contemporanea nelle storie in costume, e infatti in Bridgerton a un certo punto le arpiste suonano Ariana Grande).
Nello stesso weekend natalizio in cui su Netflix è arrivata Bridgerton, su Sky c’era il nuovo film sui moschettieri di Giovanni Veronesi: il Princess Bride che ci possiamo permettere, col merito di sputtanare definitivamente la più intollerabile canzone del Novecento, La cura.
Il film comincia (e finisce) nel presente, dove tutti hanno le mascherine, e io ho detto lo stesso «no, per favore, basta, che incubo» che esalo a ogni puntata di questa stagione di Grey’s Anatomy, che parla solo di Covid. A voler fuggire dalla realtà (se no a cosa servono il cinema e la tv?) non è solo il bambino protagonista del film di Veronesi: siamo anche noialtri che preferiamo i corsetti alle mascherine. (Chi capisce come va il cinema dice che per qualche anno funzioneranno solo le cose in costume. E infatti: l’Inghilterra dell’800 da una parte, la Francia del ’600 dall’altra).
Accantoniamo per un attimo il problema principale di Bridgerton (una protagonista della cui bellezza tutta la nobiltà inglese favoleggia, e che è bruttina rispetto a molte coprotagoniste, e dotata dei capelli più raccapriccianti nella storia dell’audiovisivo). Parliamo delle verdure.
Shonda fa i predicozzi sempre: sì, poi ti do il dolce (la storia d’amore), ma prima le verdure (l’arringa sui diritti di qualche minoranza).
Vuole sempre dirci quanto siano sottovalutati gli infarti delle donne, quanto la polizia vessi i neri, quanto siano discriminati i gay. In Bridgerton almeno due volte a puntata qualcuna dice che non le daranno retta nelle sue giuste rimostranze perché è una donna, e la società non sta a sentire le donne. (Specialmente quelle bianche, cui Bridgerton assegna ruoli assai più mosci scegliendo attrici assai meno belle).
Ma, se nella Londra di duecento anni fa mezza aristocrazia era nera, e se nella Hollywood degli anni ’50 di Ryan Murphy le coppie gay andavano insieme alle occasioni ufficiali, che bisogno abbiamo di lottare per l’uguaglianza? I più attenti a perorare i diritti delle minoranze ci dicono che in realtà le minoranze son sempre state piene di diritti (compreso quello a fare il bagno sulle spiagge di Verona).
E quindi, quando poi in Grey’s Anatomy usano il caso d’un rapitore di ragazzine per arringarci su come le donne nere siano molto più in pericolo delle bianche, noi poveri spettatori che crediamo alla finzione narrativa finiamo a chiederci: ma come, sono duecento anni che fanno il bello e il cattivo tempo nell’aristocrazia inglese, le donne nere. Non solo non hanno bisogno d’essere protette, ma ci avete sempre mentito dicendoci che Meghan Markle, per quei tre quarti d’ora in cui è durata a corte, era una rivoluzione.