Al largo delle coste tedesche, sul fondo del Mare del Nord e del Mar Baltico, vi sono circa 1,6 milioni di tonnellate di ordigni, munizioni e residui bellici, tra cui oltre cinquemila tonnellate di armi chimiche. Risalgono prevalentemente alla seconda guerra mondiale, e si trovano nelle acque territoriali tedesche a seguito di operazioni militari o dello scarico di rifiuti in mare. Il problema è noto da tempo, basti pensare che già alla fine degli anni Settanta sono stati riportati casi di collezionisti di fossili che raccoglievano sulle spiagge quella che credevano ambra ma che si rivelava fosforo, procurando loro ferite e ustioni.
Sono negli ultimi anni, però, è aumentata l’attenzione verso la questione, che ha effetti molteplici. L’azione del tempo ha fatto si che la corrosione dei materiali rilasciasse in mare sostanze tossiche e metalli pesanti come il mercurio, con ovvie conseguenze sulla fauna e flora ittica. Alcuni ricerche condotte nell’ambito del progetto Daimon, che ha coinvolto diversi enti di ricerca dei Paesi che affacciano sul Baltico, ha osservato ad esempio come il 25% degli esemplari di limanda, una sogliola che vive in quelle acque, abbiano sviluppato tumori al fegato. Anche le attività economiche subiscono ripercussioni. Capita infatti che alcuni ordigni finiscano nelle reti dei pescatori (nel 2005 ne sono morti tre a seguito dello scoppio di una bomba pescata per errore), mentre la progettazione e l’installazione di strutture off-shore o la posa dei cavi per le comunicazioni viene resa più difficile dalle presenza delle scorie, dato che urti o sbalzi di pressione possono causare detonazioni.
In questo contesto, mappare con esattezza le zone interessate e predisporre strategie di smaltimento sta diventando sempre più un tema di discussione, soprattutto perché con il passare degli anni aumentano sia il costo delle operazioni che la loro pericolosità. La prima difficoltà, tuttavia, risiede proprio nel raccogliere dati completi: da anni si conoscono alcune zone particolarmente interessate, ma in questi decenni le sostanze tossiche fuoriuscite possono essersi spostate anche per lunghe distanze.
Per migliorare i dati a disposizione, l’Ufficio Federale per l’Ambiente ha incaricato l’Istituto di Farmacologia e Tossicologia di Kiel di prelevare e analizzare campioni biologici di diverse aree, per capire meglio l’estensione geografica e l’intensità del fenomeno. I risultati sono attesi per l’inizio del 2023. L’esigenza di disporre di più dati è stata del resto ribadita anche alla conferenza dei ministri dell’ambiente del 2019, mentre una rete composta da istituti di ricerca e compagnie private, denominata “Munitect” e coordinata dall’Istituto Fraunhofer per l’Elaborazione Grafica dei Dati (IGD), ha elaborato un sistema per individuare il materiale bellico attraverso sonar e sonde magnetiche; i costi richiesti, però, rendono possibili analisi solo su base campionaria. Inoltre, il sistema è a volte impreciso, e può capire che rilevi anche semplici rottami.
La rimozione e lo smaltimento dei materiali rappresentano poi un problema ulteriore. Ad oggi, se questi vengono rimossi dal fondale, vengono poi portati a Münster, dove si trova l’unico sito adatto allo smaltimento delle armi chimiche e delle scorie degli armamenti. Ma non sempre la rimozione è possibile: talvolta i residui vengono fatti brillare, ma la pratica ha dei costi per l’ambiente, oltre a mettere in pericolo le persone coinvolte. Anche per questo, artificieri e compagnie private come la Boskalis Hirdes utilizzano robot subacquei telecomandati e dotati di telecamera, e hanno presentato il progetto “ROBEMM”, che permetterebbe di far detonare in maniera più sicura i materiali che non possono essere rimossi dal fondale.
Anche a livello politico l’attenzione per la vicenda sta crescendo. Nel marzo 2019 i liberali della FDP hanno presentato un’interrogazione parlamentare in cui si sottolineavano i rischi per le persone e si chiedeva quali misure fossero in opera per lo smaltimento. Questa settimana, inoltre, i Verdi e la FDP hanno annunciato per tramite dei loro deputati Steffi Lemke e Olaf in Der Beek di voler presentare una mozione comune al Bundestag, per impegnare il governo ad agire, delineando una strategia per uno smaltimento meno inquinante possibile e finanziando per intero l’operazione.
È probabile che per affrontare davvero il problema serviranno ancora anni, necessari sia per la raccolta dei dati che per capire il sistema di smaltimento migliore. La questione, ignorata a lungo in Germania, sta però acquistando sempre più centralità nel dibattito sulle politiche ambientali.