L’impronta culturaleSmettetela d’illudervi di capire cosa sia vero e cosa falso, sullo schermo e altrove

Guardiamo i film e le serie tv pensando che raccontino la verità, e i reality borbottando «ma tanto è tutto scritto». Questo perché non abbiamo capito niente della televisione, nonostante qualcuno abbia provato a spiegarcela

Pixabay

La mia puntata preferita della nuova stagione di The Crown è quella in cui la Thatcher va a Balmoral, la tenuta di campagna della famiglia reale. 

Fa alcune cose che sono uno splendido saggio sulle classi sociali (l’unico tema di tutte le cose scritte dagli inglesi è la classe sociale, diceva Mike Nichols), come sdegnarsi quando vede che a lei e al marito sono state date due camere da letto: il marito chiede se sia il caso di dormire separati, e lei non transige, «non prenderemo nessuna di queste abitudini da upper class». 

Alcuni di questi segni che la Thatcher non è una di loro sono di totale immedesimabilità: arrivare vestita da sera a quella che crede essere la cena ed è invece un tè in cui tutti sono ancora vestiti da caccia essendo appena tornati da fuori; presentarsi in tailleur e tacchi a quella che poi scopre essere appunto una battuta di caccia; sedersi come fosse una sedia qualunque su quella che era stata la poltrona della regina Vittoria. 

La Thatcher è praticamente Anna Longhi alla Biennale di Venezia. Era così poco di mondo? È tutto vero? La risposta alla prima è «Non lo so e non me ne frega niente: funziona»; alla seconda: «Chi se ne frega, è un’opera di finzione». 

Uno non somiglia a sé stesso quando si rivede nelle foto di famiglia, figuriamoci quando dalla sua vita viene tratta un’opera di fantasia, con gli attori, le parrucche, le scenografie. 

Se avete degli amici interessati al cinema, in questi giorni avrete anche voi Facebook intasato dal dibattito su Mank, il film in cui David Fincher racconta la nascita di Quarto potere. Un dibattito culturale di cinquant’anni fa del quale è in corso un rifacimento. 

Nel 1971, Pauline Kael (più nota critica cinematografica della storia d’America, all’epoca scriveva sul New Yorker) pubblicò un saggio intitolato Raising Kane. In esso sostanzialmente si diceva che la sceneggiatura di Quarto potere, firmata da Herman J. Mankiewicz (il Mank di Fincher) e da Orson Welles, era opera del solo Mankiewicz, e che il film passava per un film di Welles a causa della convinzione che i film li facessero i registi e della prepotenza del wunderkind Orson. 

L’anno dopo le rispose Peter Bogdanovich, regista ma soprattutto amico di Welles (le loro conversazioni meravigliose sono tra i più bei libri di cinema e di pettegolezzo che possiate leggere), con un saggio che ha il problema contrario di Quarto potere: Welles è accusato di non averlo firmato ma di esserne il vero autore. 

Erano tempi in cui la gente leggeva dibattiti culturali in cui gli articoli erano lunghi come libri, anni che una pensa non possano mai tornare, finché non succedono tre cose. 

La prima è che David Fincher, uno di quelli che qualunque cosa facciano diventa rilevante, fa un film sul facimento di Quarto potere che sembra aderire alla mozione Kael. 

La seconda è che i laureati al Dams, adulti che tutta la vita si sono chiesti perché diavolo non avessero fatto l’alberghiero, finalmente si sentono rilevanti e protagonisti del loro tempo, come tifosi d’un calciatore minore che lo vedessero arrivare a giocare i mondiali e fossero gli unici a ricordare i suoi rigori su quel campetto di provincia. 

La terza è che siamo un’epoca che ha un rapporto assai bislacco con la verità nell’intrattenimento. 

Pretendiamo che sia tutto vero quando Fincher fa un film su un altro film (raddoppio di finzione), mettendo un sessantenne (Gary Oldman) a interpretare un quarantenne (Mankiewicz), e perdipiù girandolo in bianco e nero: cosa deve fare, di più, perché non lo prendiate per una fedele cronaca? 

Pretendiamo che sia tutto vero quando una serie televisiva sulla famiglia reale inglese in cui gli attori cambiano ogni due stagioni, e quindi l’Elisabetta cinquantenne non somiglia neanche vagamente a quella trentenne, racconta la sua versione dei fatti. Della reputazione della Thatcher non interessa niente a nessuno, figuriamoci, ma i giornali inglesi sono praticamente monopolizzati da Diana Spencer. Ovvero: dalla versione che ne danno in The Crown. 

Sembra che siano di nuovo gli anni Novanta, quando il mondo s’interrogava: l’hanno davvero trattata così male, povera ragazza, quei frigidi della famiglia reale? L’altro giorno il suo ex maggiordomo ha fatto delle dichiarazioni su com’è la Diana di The Crown e, su diversi giornali, quelle stesse frasi stavano sotto i titoli «Il maggiordomo della principessa Diana dice che The Crown è “piuttosto vicino alla realtà”» e «Paul Burrell, maggiordomo della principessa Diana, critica le imprecisioni di The Crown». 

Se non riescono a dare una versione oggettiva d’una qualunque scemenza i giornali, perché ci ostiniamo a pensare che anche solo ci provino le opere dichiaratamente di fantasia? 

Ci sarebbero cose molto più interessanti di cui discutere, rispetto a The Crown e rispetto a Mank. Cosa ci dice del rapporto tra Fincher e il padre (sceneggiatore di Mank) il fatto che papà sia morto lasciando da dirigere al figlio regista una sceneggiatura su quanto gli sceneggiatori siano vessati dai registi? 

Come mai le millennial – che non sanno mai niente, figuriamoci se sanno la storia di fine Novecento – corrono sull’Instagram di Carlo e Camilla a insultarli per come hanno maltrattato Diana, dopo aver visto The Crown, considerato che una persona normodotata che veda The Crown si convince che Diana fosse una povera scema ben prima che una vittima? 

Ma questi dibattiti non li facciamo perché l’impronta culturale non ce l’ha data F come falso, il finto documentario del 1973 (idealmente quindi a chiudere una trilogia, dopo i saggi di Kael e Bogdanovich) in cui Welles fingeva di raccontarci la storia d’un falsario ma la storia del falsario era falsa e insomma la morale era: smettetela d’illudervi di capire cosa sia vero e cosa falso, sullo schermo (ma anche altrove). 

L’impronta culturale ce l’hanno data i reality, che guardiamo con lo spirito contrario a quello con cui guardiamo un film o una serie televisiva: quelli pensando debba essere tutto vero, e i reality borbottando «Ma tanto è tutto scritto». Convinti che gente che non saprebbe leggere il gobbo d’una televendita sia in grado di ripetere credibilmente un copione ventiquattr’ore al giorno. Che lo sappiamo, noi, che quel che ci dite che è vero è in realtà falso, e quello che ci dite che è falso dovrebbe esser vero. A noi non la si fa, no no.

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