La crisi di governo non ha spaventato i mercati, nemmeno durante le consultazioni. Malgrado l’apprensione del ministro Gualtieri dopo la prima settimana di maretta a Piazza Affari («Gli italiani hanno perso quasi 8 milioni di euro in spesa per interessi»), una cosa appare chiara agli osservatori: questa è la prima crisi di governo da diversi anni che non è condizionata dallo spread e non lo condiziona. Almeno per ora.
Basta guardare all’evoluzione del differenziale tra Btp e Bund tedeschi – da un decennio termometro del “rischio Italia” – dal giorno delle dimissioni delle ministre Bellanova e Bonetti: dopo la chiusura a 109 di mercoledì 13 gennaio, le oscillazioni sono rimaste contenute nel raggio di 10-15 punti base, con un picco di 125 sfiorato venerdì 22 gennaio. E da allora mai più raggiunto, perché lo spread da giorni indugia al di sotto della soglia psicologica dei 120 punti. Peraltro, il Tesoro continua a collocare in asta i titoli di stato senza alcun intoppo, segno che il debito pubblico italiano è rimasto appetibile.
Nulla a che vedere con le fiammate della primavera del 2018, nelle settimane successive al boom di Lega e Movimento 5 Stelle alle elezioni politiche. All’epoca da uno spread di 114 punti registrato il 25 aprile si passò in poco più di un mese ai 320 punti del 29 maggio.
Le parole della politica in quel momento turbavano i mercati. La retorica antieuropeista, i «piani B» per uscire dalla moneta unica, la “cancellazione” del debito pubblico filtrata incautamente da una bozza del contratto di governo: tutto questo spingeva gli investitori a disfarsi dei titoli di stato italiani, facendo impennare spread e rendimenti con un forte aggravio per i conti dello Stato.
Quei timori oggi sembrano lontani anni luce, con la pandemia ancora nel pieno della sua seconda ondata e il paese che, governo permettendo, si prepara a varare il più imponente piano di investimenti della storia repubblicana, con il patrocinio dell’Europa.
Ma, soprattutto, di diverso da allora c’è una rete protettiva lunga migliaia di miliardi di euro a tutela del nostro debito: la rete di salvataggio della Banca centrale europea.
Sono passati dieci mesi dalla famigerata gaffe della presidente Christine Lagarde che, rispondendo in conferenza stampa a una domanda sull’Italia, si lasciò sfuggire la frase: «Non siamo qui per comprimere gli spread», scatenando la violenta reazione dei mercati finanziari.
In realtà, gli spread la Bce li ha compressi eccome.
«La Banca centrale europea è lì soprattutto per contenere gli spread» commenta a Linkiesta Massimiliano Maxia, senior fixed income product specialist di Allianz Global Investors. E lo ha fatto grazie al maxi-programma di acquisto di titoli di stato, noto come Pepp (Pandemic emergency purchase programme), varato all’inizio della pandemia e successivamente ampliato fino a 1.850 miliardi di euro. Una vera potenza di fuoco per frenare il tracollo economico dell’Eurozona. Continua Maxia: «La flessibilità del Pepp, che consente di aumentare o diminuire la quantità di titoli acquistati dalla Bce quando necessario, è un deterrente formidabile contro la speculazione e la volatilità dei mercati».
E in effetti in questi mesi lo spread è sceso di 70-80 punti, malgrado la recessione. Vale la pena ricordare che il valore di 103 di lunedì 11 gennaio è stato il più basso dal dicembre del 2015 nella forbice del rendimento che separa le emissioni italiane da quelle di Berlino. E tramite il Pepp, stima per esempio Bank of America, la Bce assorbirà di fatto tutte le emissioni nette di debito dei governi europei nel 2021. In sostanza, pagherà l’intero debito dei paesi europei, da sola.
Non può stupire allora che, anestetizzato dall’oppio monetario, il mercato abbia accolto quasi con noncuranza le fibrillazioni politiche romane.
Dispiace deludere però chi ritiene che lo spauracchio dello spread sia stato definitivamente esorcizzato. «La relativa calma sui mercati è legata a una scommessa» spiega a Linkiesta Angelo Baglioni, ordinario di economia politica all’Università Cattolica di Milano ed esperto di politica monetaria, «la scommessa che la crisi di governo si risolverà, in un modo o nell’altro, senza il ricorso alle urne».
«Gli investitori non hanno ancora come scenario base la possibilità di andare a elezioni anticipate» fa eco Massimiliano Maxia, «se dovessero sbagliarsi, con la prospettiva di una nuova maggioranza guidata da partiti anti-Europa, la volatilità aumenterebbe e non si potrebbe escludere un allargamento anche repentino dello spread».
Tutto dipende quindi dall’evoluzione delle consultazioni, giunte ormai a un punto di svolta. Un Conte ter o comunque un governo sostenuto dall’attuale maggioranza garantirebbero continuità politica, soprattutto per la stesura del Recovery Plan e il dialogo con le istituzioni europee. E certamente rassicurerebbero gli investitori stranieri, che molto poco comprendono della bagarre politica all’italiana. Se, viceversa, si dovesse rotolare beatamente verso il voto, la reazione dei mercati finanziari sarebbe assai più vistosa di quella osservata nelle ultime settimane.
E a ricordare le difficoltà a cui potrebbe andare incontro l’Italia per via della crisi di governo ci hanno pensato anche le agenzie internazionali di rating. Mai tenera nei nostri confronti, Moody’s ha sottolineato che l’incapacità di sfruttare le risorse del piano Next Generation Eu «eserciterebbe probabilmente una pressione al ribasso sul merito di credito», che è già a un solo gradino dal livello “spazzatura”. Altrettanto duro il commento di Fitch, secondo cui un governo più debole o la persistente incertezza politica potrebbero danneggiare le prospettive di crescita e quindi degradare il rating sovrano dell’Italia.
A quel punto, nemmeno Christine Lagarde potrebbe fare miracoli. «Se partissero attacchi speculativi sul nostro debito pubblico, non credo che la Bce ci verrebbe in soccorso» chiarisce Angelo Baglioni, «l’Eurotower non è lì per fare da calmiere agli spread schizzati in alto per motivi puramente politici». E certamente il programma Pepp non è stato concepito per risolvere crisi di governo.
Ma a rispondere tra le righe è stata in fondo la stessa Lagarde, sollecitata dai giornalisti nell’ultima conferenza stampa dopo la riunione del consiglio direttivo: «Al momento non vediamo sviluppi nei rendimenti di un singolo paese che possano rappresentare un problema per le condizioni finanziarie dell’Eurozona nel suo insieme», fugando così ogni dubbio sul fatto che possano essere prese in esame situazioni specifiche.
La conclusione che se ne può trarre è che la Bce rimane saldamente impegnata ad acquistare i bond governativi italiani – come quelli di altri paesi – fino a marzo 2022, la scadenza naturale del Pepp. Per il resto c’è il Next Generation Eu, che Lagarde ha di nuovo invitato ad attivare senza indugi. L’impegno è quindi a tempo determinato.
«Quello di Lagarde è stato un avviso ai naviganti, in particolare all’Italia» commenta ancora Massimiliano Maxia, «la Bce continua a fornire liquidità, ma l’instabilità politica è malvista in un momento in cui il Recovery Fund deve essere la priorità».
Insomma, lo spread è sotto controllo per ora e la primavera del 2018 sembra lontana. Ma il “vincolo esterno” è in un certo senso più stringente di allora. Il Recovery Fund, proprio perché rappresenta un impegno senza precedenti da parte dell’Europa, impone un percorso virtuoso, anche dal punto di vista squisitamente politico.
È stato il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis a farlo presente, confidando che l’instabilità politica non metta a repentaglio i lavori in corso sul Recovery Plan. Perché «l’Italia è il maggiore beneficiario e bisogna assicurarsi che i fondi arrivino». In Europa, quindi, c’è diffidenza. E il rapporto con l’Unione europea alla vigilia dell’erogazione dei fondi Next Generation Eu è il cuore di tutto.
È vero, non esiste ancora un “caso Italia” sui mercati. Ma la crisi politica dovrà essere risolta in modo rapido e convincente. Meglio quindi non scherzare con il fuoco.