Fare profittiLe aziende e il mercato funzionano, giù le mani dal capitalismo

È tornato di moda attribuire tutti i mali del mondo alla struttura delle imprese, tanto che si invoca un cambio di paradigma e uno stravolgimento della missione aziendale. Il nuovo saggio di Franco Debenedetti, edito da Marsilio, spiega perché queste critiche sono sbagliate

da Unsplash, di Jukan Tateisi

Il viaggiatore che, sceso dall’aereo a Londra di prima mattina mercoledì 18 settembre 2019, avesse preso la sua copia del «Financial Times», avrebbe strabuzzato gli occhi: a racchiuderla, una copertina giallo canarino recante un solo titolo, a caratteri cubitali, come l’ormai famoso Fate presto del «Sole 24 Ore», quando lo spread era a 575: Capitalism. Time for a reset.

Reset si traduce con ripristinare o con azzerare: per «ripristinare» il capitalismo – spiega sul retro una lettera del direttore Lionel Barber – bisogna «azzerare» la dottrina dello shareholder value, secondo cui la responsabilità sociale delle imprese, in particolare di quelle che hanno la forma di società per azioni, è la massimizzazione dei profitti. Questo principio è stato punto di riferimento, soprattutto nei paesi anglosassoni, per quasi mezzo secolo.

Certo, c’erano voci di dissenso, ma ora siamo a un dichiarato cambio di paradigma, che l’edizione fuori norma del «Financial Times» rende ufficiale.

Chi, nell’Italia dell’Iri prima e della Cdp oggi, per decenni ha letto il quotidiano rosa come la bibbia del libero mercato, la voce del mercato finanziario moderno nel paese del capitalismo delle scatole cinesi e delle partecipazioni incrociate, avrebbe ben di che strabuzzare gli occhi.

L’articolo del «Financial Times» riprendeva e amplificava la dichiarazione resa un mese prima dai 181 capi delle massime aziende americane alla Business Roundtable, che portava in calce, a renderla più solennemente impegnativa, le loro 181 firme autografe.

Questa a sua volta discendeva dal manifesto, redatto da Martin Lipton su richiesta del World Economic Forum, pubblicato nel 2016 e poi nell’edizione del manifesto di Davos del 2020. Che vi affermassero l’impegno a trattar bene i dipendenti, a non discriminare per colore della pelle o per preferenze sessuali, e che la soddisfazione dei loro clienti fosse in cima ai loro pensieri, non parve una novità sconvolgente.

La novità era la sottoscrizione di un nuovo paradigma di governo societario, che adotta i principi dello stakeholderism e degli investimenti Esg (Environmental Social Governance) rinnegando il principio che aveva tenuto banco almeno dal 1970, quando la pubblicazione sul «New York Times Magazine» di un articolo di Milton Friedman aveva reso popolare la sua dottrina: una e una sola è la responsabilità sociale dell’impresa, fare quanti più profitti possibile, purché, aggiunge, «nel rispetto delle regole fondamentali della società, sia quelle incorporate nelle sue leggi, sia quelle dettate dai suoi costumi etici».

Una novità, quella del nuovo paradigma, non priva di contraddizioni. Infatti, attirando a Davos i capi delle massime aziende del mondo per catechizzarli e convertirli allo stakeholder capitalism, Klaus Schwab fa aumentare lo shareholder value del suo World Economic Forum.

E, a sua volta, se i catecumeni ivi convenuti adotteranno il nuovo verbo stakeholderista, sarà solo perché pensano che, in questo modo, o aumenterà lo shareholder value delle loro imprese, o diminuiranno i rischi a cui possono andare incontro (o semplicemente saranno più liberi dalle pretese degli shareholder). E anche la direzione del «Financial Times» deve aver pensato che attribuire alla massimizzazione dei profitti delle aziende la responsabilità delle diseguaglianze di redditi, della precarietà del lavoro, dei problemi ambientali, potesse essere il modo per conquistare nuovi lettori e inserzionisti massimizzando così i profitti. (Poi devono aver temuto di passare da bibbia del mercato a corano del socialismo e, ricordando la prima norma del marketing – non perdere i clienti che si hanno – il 7 ottobre 2019 pubblicavano un articolo a firma di Jesse Fried dal titolo inequivocabile: “Gli shareholder vengono sempre prima, ed è un bene che sia così”).

Insomma, nei club, o nei templi, del capitalismo è un susseguirsi di autodafé, comprensibili solo come riti scaramantici.

Le imprese, dice Friedman, devono seguire i costumi etici, non darsene di propri. L’etica è esterna all’impresa. La sua «prima e principale responsabilità», come scrive Archie B. Carroll, «è di natura economica. […] l’impresa è l’unità base nella nostra società. Come tale ha la responsabilità di produrre beni e servizi che la società desidera e di venderglieli con profitto. Tutti gli altri ruoli dell’impresa sono basati su questo fondamentale assunto». La misura è lo shareholder value. Invece lo stakeholder value richiede di scegliere tra le varie constituency, in base a criteri arbitrari che sovente finiscono per essere dettati dalla politica.

Non restare in conformità ai «costumi etici», anche senza violare la legge scritta, può avere conseguenze molto gravi: un’azienda può perdere i clienti e i collaboratori più qualificati, quindi veder diminuire il suo shareholder value. C’è però anche un rovescio della medaglia: intercettare per primi il sentimento della gente, mettersi in sintonia con le loro speranze e le loro paure, può consentire di conquistare clienti e collaboratori, magari perfino di spuntare un prezzo migliore, tutto a vantaggio dello shareholder value. Perseguirlo può consentire di raggiungere obiettivi che sfuggono ai governi.

È il caso del cambiamento climatico e della decarbonizzazione dell’economia. La Tesla nel 2019 rischiava di fallire, un anno dopo la sua capitalizzazione in Borsa superava quella della Toyota: non per i suoi utili, ma perché, seguendo il principio «siliconvallico» del move fast and break things, ha trascinato l’elettrificazione delle auto, sicché oggi non c’è pubblicità di costruttore che non esibisca in prima fila i modelli elettrici.

In generale, sono le scelte degli investitori a decretare il successo delle imprese con credenziali Esg e le preferenze dei clienti quello dei prodotti sostenibili. Mentre i governi non riescono a mettersi d’accordo sul protocollo di Parigi.

Le riflessioni raccolte in questo libro nascono proprio da quella che a chi scrive sembra una contraddizione che la latitudine semantica del verbo reset consente: tra critica di quanto vada «rimesso a posto» in un paese capitalistico, o anche in tutto l’Occidente, e «azzerare» il modo di funzionare delle società per azioni.

Ci sono ragioni anche evoluzionistiche, sostiene Michael Jensen, per cui gli esseri umani devono simultaneamente esistere in due ordini, che Hayek chiama il micro e il macrocosmo. Applicare a entrambi il nome di società serve a poco ed è perlopiù fuorviante. Dobbiamo continuamente aggiustare le nostre vite, i nostri pensieri, le nostre emozioni, per vivere in diversi tipi di ordine secondo diverse regole. Bisogna considerare, oltre al sistema nel suo complesso, le strutture sottostanti, passando dalla società civile alla società per azioni, il mattoncino di Lego del capitalismo, cioè dai governi alle imprese, dalla macro alla microeconomia, dalle decisioni del regolatore ai comportamenti del regolato, dalla political economy alla corporate governance.

Il capitalismo, innanzitutto: che è sotto accusa. Non solo vengono disconosciuti i suoi più evidenti successi (Mariana Mazzucato), non solo viene condannato per il suo intrinseco modo di funzionare (Thomas Piketty): è rigged (Martin Wolf), è gone wild (John Mauldin), necessita di una cassetta degli attrezzi per ripararlo (Joseph Stiglitz), ha creato un nuovo materialismo (Greg Jaffe).

Non stupisce che accusarlo sia diventato, come si diceva una volta, un luogo comune, o come si dice oggi, nell’epoca dei social media, un contenuto virale. Quelle che si rivolgono alle grandi aziende di internet, più che accuse sono condanne in attesa di esecuzione; l’intera cultura degli algoritmi è vista con sospetto; contro robot e intelligenza artificiale si scatena il nuovo luddismo.

Eppure in poco più di un secolo la percentuale di persone che viveva in condizioni di estrema povertà è passata dall’85% al 4%; il 40% dei bambini moriva prima del quinto anno di età, oggi solo uno su 25; nel tempo della mia vita la popolazione del mondo è cresciuta più di tre volte e contemporaneamente il Pil pro capite è passato da circa 3 mila dollari a circa 15 mila.

Nel 1800 la schiavitù era legale quasi ovunque, oggi è (formalmente) illegale in tutto il mondo; le donne non votavano, oggi lo fanno ovunque si voti; infine, nel 1800 quasi nessuno viveva in una democrazia.

Per alcuni le difficoltà che incontra il capitalismo, invece che sfide da affrontare, sono segno di degenerazione: le diseguaglianze in primo luogo, che in alcune società raggiungono livelli difficili da giustificare; la dislocazione di attività, che ha interessato imprese e professionalità, soprattutto nelle industrie tradizionali; la finanziarizzazione dell’economia; una caduta del tasso di crescita della produttività. Sotto accusa è anche l’antitrust americano che, dopo la svolta di Robert Bork, ha consentito che crescessero monopoli nel paese che era stato modello di mercato concorrenziale.

La grande crisi finanziaria e le sue conseguenze hanno lasciato la sensazione che il sistema sia truccato, che ci sia una relazione diretta tra gli eccessi dei servizi finanziari e i disagi economici che i cittadini hanno dovuto sopportare.

Anche il decennio di interessi bassi che ne è seguito è andato a vantaggio della speculazione piuttosto che dei cittadini ordinari. Il modello capitalistico di produrre e di consumare – questo il verdetto – esaurisce le risorse del pianeta e lo sta distruggendo: ha creato le condizioni di un pericolo esistenziale a cui non si sa come porre rimedio. E poi la pandemia da Covid-19, ad acuire i problemi, compresa la diseguaglianza.

In passato le sirene del thatcherismo e del reaganismo avevano cantato che si sarebbe ripetuto quanto era avvenuto per le rivoluzioni tecnologiche e le globalizzazioni precedenti, che le imprese avrebbero risolto i problemi del mondo, assicurando crescita e diffondendo benessere.

Ora invece la politica si impadronisce dei problemi, ma non ce la fa a individuare le soluzioni, non riesce a redigere un programma, a riempire di contenuti le grandi questioni delle diseguaglianze, del welfare, della tecnologia.

Scaricare le colpe di tutto sul neoliberismo può andar bene per deviare le proteste e farle convergere su un costrutto retorico. Ma quanto a indicare soluzioni, il sistema è troppo complesso, sia per chi crede nella sua capacità di rispondere ai problemi, come è sempre stato finora, sia per chi vorrebbe abbatterlo, nonostante i disastri provocati da chi ci ha provato.

I governi impongono i tributi, intermediano una larga parte del prodotto, forniscono direttamente servizi essenziali; pubblica è la politica monetaria; la politica estera influenza scambi commerciali e investimenti; il potere legislativo può determinare i rapporti di concorrenza tra le aziende, i diritti generali di shareholder e stakeholder. Le società per azioni devono «entrare in concorrenza aperta e libera con gli altri soggetti presenti sul mercato, senza inganni o frodi», ma è compito dello Stato garantire la libertà dei mercati e la concorrenza sul mercato di prodotti e servizi, e la contendibilità del controllo societario.

E siccome la concorrenza è, come dice Friedrich von Hayek, un processo di scoperta, in questo modo si pongono le condizioni per la crescita dell’innovazione.

Passando ora di livello, dalla società civile alla società per azioni: per quale motivo le cose dovrebbero andar meglio se creare la ricchezza della nazione non fosse responsabilità delle società per azioni? A tutte le scale, gli esperimenti per assegnarla, quella responsabilità, allo Stato hanno dato risultati che dissuadono dal riprovarci. Anche chi ha perso (o non ha mai avuto) fiducia nel capitalismo, deve riconoscere che la società per azioni a responsabilità limitata ha avuto un ruolo da protagonista per il successo delle economie di mercato: ha convogliato il risparmio verso gli investimenti e ha favorito la crescita dei paesi dove ha avuto origine e dai quali si è diffusa nel mondo.

Che cosa supporta la convinzione che i grandi problemi sistemici – della crescita, della distribuzione della ricchezza, della formazione, del welfare, e ora della cura dell’ambiente – abbiano origine proprio nelle società per azioni e poi si aggreghino a livello delle società in senso lato?

Ci deve essere, sostengono alcuni, una causa generale e strutturale se qualcosa è andato storto, se si è verificata una distonia tra il funzionamento delle imprese e quello del mondo che esse stesse hanno costruito, e pensano che questa sia l’obiettivo che esse perseguono. Per cui vorrebbero che le imprese cambiassero la loro funzione obiettivo; basterebbe questo, dicono, perché riprendessero il compito di creare innovazione e ricchezza, in modo virtuoso.

Era già accaduto: con la grande depressione e la conseguente crisi di fiducia nel capitalismo, si guardò alle grandi imprese per continuare a diffondere in tutta l’economia il corporativismo del New Deal, legittimandolo con la teoria della Corporate Social Responsibility (Csr). Ed è proprio per rimediare alle degenerazioni che ne derivarono nei decenni successivi che Milton Friedman riportò la responsabilità sociale dell’impresa alla sua funzione: fare quanti più profitti possibile.

Shareholder e stakeholder value sono diventati simboliche astrazioni, termini sintetici di visioni politiche e sociali contrapposte, anche in modo esasperato. Ma essi hanno un significato preciso all’interno di una teoria dell’impresa a forma societaria. Il fatto che questo costrutto giuridico sia presente in tutte le economie del mondo, mantenendo un’impressionante uniformità di caratteristiche e andando incontro fondamentalmente agli stessi problemi giuridici attraverso le varianti delle giurisdizioni nazionali, testimonia che è elemento imprescindibile dell’economia di mercato.

Le imprese entrano in numerosi rapporti contrattuali, con fornitori, dipendenti, clienti, anche terze parti quali le comunità locali, i beneficiari dell’ambiente naturale.
A far sì che l’impresa possa svolgere il ruolo di coordinamento agendo come controparte unica distinta dagli individui che la possiedono e che la gestiscono, così consentendo loro di impegnarsi insieme in progetti comuni, provvede la corporate governance.

Secondo la definizione che ne dà l’Ocse, essa è «il sistema con cui le imprese sono gestite e controllate; specifica la distribuzione dei diritti e delle responsabilità tra i vari partecipanti nella società, consiglio di amministrazione, manager, azionisti e altri titolari di diritti; precisa le regole e le procedure per prendere decisioni negli affari societari; fornisce la struttura con cui vengono stabiliti gli obiettivi dell’impresa e i mezzi per raggiungere questi obiettivi e per controllare l’efficienza».

Questo sistema si è andato evolvendo e raffinando per oltre un secolo, adeguandosi al mutamento delle tecnologie e dei mercati, quelli dove si scambiano beni e servizi e quelli dove si scambiano i diritti di proprietà.

Finché, con il saldarsi dei progressi delle tecnologie informatiche a quelli delle comunicazioni, siamo entrati nell’economia digitale. Una rivoluzione, la quarta, dopo quelle delle applicazioni industriali della macchina a vapore, dell’elettrificazione, dell’automazione e, delle precedenti, più rapidamente dilagante.

Questa rivoluzione, che quelli della nostra generazione hanno visto formarsi ed espandersi fino a interessare il vivere sociale in tutti i suoi aspetti, e la politica nel senso sia di relazioni tra Stati sia del governo negli Stati, è probabilmente la più formidabile rivoluzione che l’uomo abbia mai sperimentato. (E questo è solo l’inizio, se pensiamo alle applicazioni dell’intelligenza artificiale, ai quantum computer, all’Internet of Things). Lo è per la velocità con cui si è manifestata: un paio di decenni dalle prime applicazioni di internet alla connettività universale.

Essere disruptive è la caratteristica delle imprese del digitale, deliberatamente perseguita come chiave di successo. E pervicacemente denigrata da coloro che non riescono ad adattarvisi, fino a contestarne il modello di business.

Molte delle accuse mosse alle imprese Big Tech finiscono per essere rivolte al capitalismo in generale: l’aumento delle diseguaglianze, la tendenza al monopolio, l’evasione fiscale. E non senza qualche ragione, non fosse che per motivi statistici, dato che le società del digitale capitalizzano (a metà 2020) il 24,5% dell’indice S&P 500.

Dei 181 Ceo firmatari della famosa dichiarazione della Business Roundtable, la gran parte sono, direttamente o indirettamente, «digitali».

La pandemia da coronavirus, che dal dicembre 2019 si è propagata in tutto il mondo, potrebbe divenire un termine a quo si racconta la storia, forse come lo sono state le grandi guerre, certamente come lo sono state la grande depressione del 1929 e la grande recessione del 2007. Ha sconvolto le nostre vite, le nostre attività, le nostre relazioni, i nostri affetti. Ha devastato le attività economiche di tante imprese, che di questo libro sono le protagoniste.

È da loro, da quelle che avranno superato la crisi, e da quelle che dalla crisi nasceranno, che ci aspettiamo il ritorno alla normalità e la ripresa del percorso di crescita che lo renda possibile. Perché sono le imprese che hanno la responsabilità di produrre beni e servizi che la società desidera e di venderglieli con profitto.

da “Fare profitti. Etica dell’impresa”, di Franco Debenedetti, Marsilio, 2021, pp. 294, euro 18

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