Linkiesta ForecastL’occasione per riparare le crepe della nostra democrazia

Nel mezzo di una pandemia devastante per gli Stati Uniti, un numero record di elettori americani ha scelto Joe Biden come presidente. Secondo il premio Nobel per l’economia potrebbe essere il punto di svolta. Tratto dal magazine de Linkiesta con Turning Points del New York Times

Doug Mills/The New York Times

Come molti dei miei concittadini sono rimasto sconcertato quando il presidente Donald Trump si è rifiutato, di fronte alla sconfitta elettorale del 3 novembre, di avviare una transizione pacifica. Lo ha detto a ottobre dello scorso anno, quando nei sondaggi figurava in costante svantaggio rispetto a colui che si sarebbe rivelato il vincitore: l’ex vicepresidente Joe Biden.

A rendere la situazione ancora più grave ci ha pensato poi il senatore dello Utah Mike Lee, un repubblicano che siede nella Commissione Giustizia del Senato, il quale ha dato seguito alle affermazioni di Trump con un tweet: «La democrazia non è l’obiettivo; lo sono invece la libertà, la pace e la prosperità. Noi vogliamo che la condizione umana prosperi. Una democrazia marcia può ostacolare il raggiungimento di questo obiettivo». Democrazia marcia? L’unica cosa da salvare in questa dichiarazione è il fatto che finalmente un politico repubblicano è stato onesto sulle sue intenzioni. Questo potrebbe essere un punto di svolta nella narrazione del nostro Paese e per il dibattito pubblico nazionale.

Se non ci dovrà essere una transizione pacifica – o anche solo tranquilla – dei poteri presidenziali, e persone come il senatore Lee l’avranno avuta vinta e avremo davvero abbandonato la democrazia, a quel punto le nostre vite e la nostra concezione degli Stati Uniti come baluardo della rappresentanza popolare e del rispetto dei diritti umani cambieranno per sempre.

Più di un anno fa, nel mio libro “Popolo, potere e profitti. Un capitalismo progressista in un’epoca di malcontento” (Einaudi) ho riflettuto sul dilemma che deve affrontare il Partito repubblicano. Ha sostenuto una serie di politiche contrarie al volere della maggioranza degli americani, favorevole all’assistenza sanitaria universale, a un accesso all’istruzione più facile, a salari minimi più alti, al controllo più rigoroso sulla vendita delle armi e così via.

L’unico modo in cui il Partito repubblicano può mantenere il suo potere è attraverso politiche antidemocratiche, privando le persone dei diritti civili (impedimento del voto) o togliendo forza alla loro voce (manipolazione delle circoscrizioni elettorali) fino a completare la composizione della Corte Suprema per limitare, in questo modo, il raggio di azione di un Parlamento o di un presidente democratico.

Abbiamo visto ciò che i Repubblicani hanno effettivamente fatto in questi anni, ed era in contrasto con tutto il loro patriottismo, con i continui richiami alla Costituzione degli Stati Uniti. Adesso hanno cominciato a parlare delle loro intenzioni in maniera più chiara e forse possiamo discutere sul  tipo di Paese che vogliamo diventi l’America. Siamo d’accordo con il senatore Lee sulla questione dei veri obiettivi? Questi obiettivi giustificano i mezzi? Siamo disposti a rinunciare alla nostra democrazia per ottenerli? E rinunciare alla democrazia ci porterebbe davvero a raggiungerli? Di sicuro, la storia ci fornisce molti segnali di allarme.

Gli ultimi quattro anni ci hanno reso consapevoli della profonda fragilità delle nostre istituzioni, quelle che garantiscono l’uguaglianza, la libertà politica, una pubblica amministrazione di qualità, una stampa libera e attiva e lo Stato di diritto.

Quando ero capo economista della Banca mondiale, circa 20 anni fa, insegnavamo ai Paesi a costruire istituzioni funzionanti. All’epoca il nostro modello e metro di paragone erano gli Stati Uniti. Non eravamo sicuri di come si creassero buone istituzioni, non sapevamo nemmeno dare una definizione esatta di questa espressione, ma quando le vedevamo le riconoscevamo. Comprendevano sia buone regole sia buone prassi e le società efficienti le avevano entrambe. Era necessaria la presenza di uno Stato di diritto, ma le norme sociali rispettate da tutti i cittadini avevano una maggiore flessibilità. Non è possibile trasformare in legge tutto ciò che rientra nella definizione di “buona abitudine”: il mondo è troppo complesso e in continuo cambiamento.

Poco tempo dopo sono diventato presidente di un gruppo internazionale, la commissione per la “Misurazione del rendimento economico e del progresso sociale”. Il nostro obiettivo era studiare le economie sane, dove i cittadini godevano di un elevato livello di benessere, e individuare gli elementi che contribuivano a creare e sostenere queste società. Un ingrediente su cui ci concentravamo, spesso tralasciato nelle analisi precedenti, era la fiducia dei cittadini l’uno nell’altro e nelle istituzioni.

Negli anni della mia giovinezza, a Gary, Indiana, a scuola ci venivano insegnati i punti di forza della democrazia americana, ci spiegavano il nostro sistema di pesi e contrappesi e ci veniva illustrato il concetto di Stato di diritto. Era una democrazia dove la voce della maggioranza era espressa con chiarezza ma i diritti della minoranza venivano rispettati. Non si parlava di fiducia – era scontata – o di fragilità istituzionale, cose che affliggevano invece le repubbliche delle banane.

Guardavamo dall’alto in basso gli altri Paesi, dove il denaro infangava il processo politico. Tutte cose che precedevano alcune decisioni della Corte Suprema, come la sentenza “Citizens United versus the Federal Election Commission”, con cui fu consacrato il ruolo economico delle grandi società nel processo politico. Per noi era impossibile anche solo immaginare un’America dominata in via permanente da una minoranza politica che si fa beffe dei diritti della maggioranza.

Ebbene, negli ultimi anni abbiamo avuto un presidente che ha fatto scempio delle regole. Senza volerlo, però ci ha insegnato a non dare per scontate le nostre buone prassi. Ha anche messo in chiaro che ormai è necessario tradurre in legge alcune abitudini consolidate, come il rispetto per il ruolo degli ispettori generali, la prevenzione dei conflitti di interesse e la divulgazione delle dichiarazioni dei redditi.

Spero che questo momento critico nel nostro dibattito pubblico non costituisca anche un punto di svolta nel futuro della nazione. Se a prendere decisioni rimarranno persone che disprezzano la democrazia, come il presidente Trump e il senatore Lee, la storia ci ha insegnato dove andremo a finire. Si vedono già alcuni indizi.

Il sequestro di persona di alcuni manifestanti pacifici, avvenuto la scorsa estate a Portland, Oregon, da parte di personale di sicurezza non adeguatamente identificato e a bordo di automobili non contrassegnate, suscita in noi un brutto presentimento. Porta con sé l’odore acre delle camicie brune di Hitler. Lo stesso vale per le affermazioni di un presidente che si dichiara, per dirla in breve, al di sopra della legge o del risultato di un’elezione libera e regolare.

Supponendo, tuttavia, che la nostra democrazia sopravviva, allora questo momento critico potrebbe condurci in una direzione del tutto diversa: affronteremo cioè il compito, più arduo ma rinvigorente, di rafforzarla. Abbiamo conosciuto i suoi punti deboli, tastato la fragilità nella sua struttura. Abbiamo visto la potenza distruttiva del denaro nella nostra politica, che mina la fiducia e inasprisce le disuguaglianze sociali. Abbiamo visto come questo processo porti a una maggiore polarizzazione e abbia trasformato un sistema virtuoso, fatto di pesi e contrappesi, in un sistema di stallo e scontro.

Ma non riusciremo a ripristinare né la fiducia né un sentimento di coesione sociale finché non affronteremo, in maniera diretta, l’intreccio delle nostre disuguaglianze razziali, etniche ed economiche. Sono linee di faglia che ci dividono e minano il senso di solidarietà, necessario per la democrazia.

Ricostruire la nostra democrazia sarà arduo ma ci farà rialzare. Perché “democrazia” significa molto di più che una elezione ogni quattro anni. Le democrazie che funzionano implicano un impegno civile di ampio raggio, vissuto in una grande varietà di istituzioni che operano nella società. L’azione collettiva non riguarda solo il governo o le istituzioni pubbliche, né distrugge l’individualità o la libertà; al contrario le può rafforzare consentendo a tutti di stare meglio.

Abbiamo visto avvicinarsi la fine dei nostri amati diritti, abbiamo guardato nell’abisso e contemplato cosa ci aspettava là sotto. Una visione terribile che forse ha dato la spinta decisiva al ritorno di quella solidarietà nazionale, di cui oggi, il popolo americano ha un grande bisogno, per ricostruire la nostra democrazia.

©️ 2020 The New York Times Company & Joseph E. Stiglitz

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