Trump sceglie chi perdonare
Ieri, mentre il Campidoglio di Washington veniva sorvegliato da più militari di quelli che sono ora Afganistan, Iraq e Siria messi insieme, il presidente uscente decideva quali finanziatori suoi e clienti dei suoi avvocati perdonare prima della partenza.
C’è suspence fino a domani sera (poi parte e si insedia Joe Biden). Si prevedono cento e più perdoni presidenziali. Donald Trump e i suoi avvocati ne hanno fatto l’ultimo business del mandato. Trump chiede fondi per la sua biblioteca presidenziale (vabbè), gli avvocati incassano con la promessa di convincerlo a graziare truffatori, omicidi abbienti, un whistleblower della Cia e il fondatore di Silk Road, primo mercato nero del Dark Web.
Trump ha passato molto tempo a esaminare le liste, insieme alla figlia Ivanka e al genero Jared Kushner, e la vera notizia è se riuscirà a perdonare preventivamente se stesso (sarebbe l’equivalente di un’ammissione di colpa, subito prima del voto sull’impeachment), o i figli. O gli staffer, alcuni sono coinvolti nell’organizzazione della marcia sul Campidoglio, altri potrebbero venire fuori.
Intanto, si fanno gli inviti per il saluto al presidente uscente, che va via alle otto di mattina, forse perché alla Casa Bianca devono fare le pulizie. Ogni invitato potrà portare fino a cinque ospiti. L’obiettivo è radunare qualche centinaio di persone (convocate alle 7.15) per acclamarlo mentre parte per Palm Beach (gli onori militari, il battaglione in alta uniforme e i 21 colpi di cannone, sono stati richiesti ma non si sa).
Trump perde guerre culturali
Forse è perché Joe Biden è un vecchio maschio bianco contro cui è difficile scatenare i bianchi razzisti, nel 2020 Donald Trump non è riuscito a bullizzarlo. Nemmeno il soprannome che gli aveva dato, Sleepy Joe, Joe il dormiglione, che in fondo era affettuoso, ha attecchito. Si vede bene dai grafici di Google Trends: Sleepy Joe è molto molto meno googlato di quanto lo fosse Crooked Hillary nel 2016, e pure di Little Marco, che era Marco Rubio. Il tutto complica l’eventuale strategia politica di Trump (che continua a parlare di correre nel 2024), centrata sugli attacchi personali.
Peggio ancora, gli investimenti sull’odio per Black Lives Matter e la cancel culture non hanno pagato. Le ricerche per police, statues e antifa vengono polverizzate da quelle per “coronavirus”.
E la pandemia potrebbe aver sopito le culture wars pretestuose, al netto dei molto radicalizzati. E secondo Axios, «Trump ha costruito il suo brand politico alimentando le guerre culturali in corso nel paese, ma i dati mostrano come sia difficile per lui vincere contro un altro bianco settantenne, e durante una pandemia» (ora, prevedono, Trump si concentrerà su legge e ordine, per la sua base non è incoerente, per gli altri si vedrà).
Marjorie e la morsa monopolistica
È un risultato della «morsa monopolistica che poche compagnie Big Tech hanno sul dibattito politico americano», il bando temporaneo da Twitter di Marjorie Taylor Greene. Lo dice la stessa neodeputata repubblicana della corrente QAnon (non è una battuta; sul tema è appena uscito un sentito op-ed di Ben Sasse, senatore del Nebraska, sull’Atlantic, intriso di serietà e dissonanza cognitiva). Twitter ha fatto sapere di aver sospeso il suo account dopo “multiple violazioni”. Non si sa per quali tweet, ma in alcuni Taylor Greene aveva appoggiato l’assalto e il saccheggio del Campidoglio (Taylor Greene in aula porta una mascherina nera con su scritto Censored perché l’hanno obbligata a stare con la mascherina, e ora torna utile).
Riley e il laptop di Pelosi
Sembra un personaggio dei fratelli Coen, di Burn After Reading soprattutto. La ragazza assaltatrice del Campidoglio che entra nell’ufficio di Nancy Pelosi, ruba il suo laptop, e attraverso un amico cerca di venderlo ai russi. Riley June Williams, 22 anni, della Pennsylvania, è ricercata dall’Fbi ed è scappata da casa dei genitori a Harrisburg.
Secondo un testimone, Williams «voleva vendere il computer a un amico in Russia, che lo avrebbe venduto ai servizi segreti. Il trasferimento del computer in Russia non è avvenuto per motivi sconosciuti, e Williams ha ancora il computer, o l’ha distrutto» («Che cosa abbiamo imparato? A non farlo più. Il problema è che non sappiamo che cazzo abbiamo fatto», diceva nel film dei Coen J.K. Simmons che era un sublime capo della Cia, e in effetti).
Golpe And The City
Jenna Ryan, agente immobiliare, emerge nelle cronache come una Carrie Weaver texana e trumpiana. Che accetta un appuntamento, finisce su un jet privato di golpidioti da Dallas a Washington, entra in Campidoglio e si filma in diretta. E viene arrestata, poi rilasciata, è indagata.
«È cominciata con l’invito di un tipo molto carino», racconta nelle interviste, che le ha scritto se voleva volare con lui e degli amici a Washington alla manifestazione per Trump. Ryan, che è single e convinta che Trump abbia vinto, ha detto di sì.
Anche lei è entrata in Campidoglio, anche lei è stata subito rintracciata grazie ai suoi post. È andata male anche col tizio, che durante il tentato golpe si è messo con un’altra.