Il Regno Unito sta scoprendo rischi ed effetti collaterali del greenwashing politico. Il problema della transizione ecologica è spesso qui: lasciarsi scappare il piede sulla frizione delle promesse a medio e lungo termine, senza avere la capacità politica o la volontà di metterle a terra. Negli ultimi mesi Boris Johnson ha messo su carta una serie di riforme per fare del paese un leader globale nella lotta ai cambiamenti climatici. Ha annunciato un taglio delle emissioni di CO2 del 68% entro il 2030, decisamente più ambizioso del 55% dell’Unione Europea. Ha promesso ai cittadini la legge ambientale più avanzata al mondo, in sostituzione di norme e regole europee non più in vigore dopo la Brexit.
Intanto nel Regno Unito si progettano piani evoluti di rewildling per riportare sull’isola animali estinti da decenni o da secoli, come bisonti, lupi e linci, con l’ambizione di rendere il 30% del territorio area protetta. È tutto verde brillante, in una fase in cui di brillante c’è poco e l’ecologia invece è un capitale politico vergine da spendere. Il problema è che l’articolato piano climatico di Boris Johnson continua a rimanere sulla carta dove nasce. «La tua voce, ferma, calma, chiara, è la voce della nostra coscienza», aveva detto l’allora segretario all’ambiente Michael Gove a Greta Thunberg, dopo un intervento dell’attivista svedese a Westminster. «Ti abbiamo ascoltata con ammirazione, responsabilità e senso di colpa. Faccio parte della generazione dei tuoi genitori e riconosco che non abbiamo fatto abbastanza per affrontare questa crisi». Era la primavera del 2019 e siamo ancora lì.
L’ultimo inciampo è il rinvio dell’environment bill, il provvedimento bandiera che dovrà riscrivere l’approccio britannico alle tematiche ambientali lasciate scoperte dalla Brexit: inquinamento dell’aria, protezione delle acque, tutela della biodiversità, gestione dei rifiuti, uso delle risorse naturali. Servono nuove regole per impedire che prodotti legati alla deforestazione internazionale (legname, ma anche carne e soia) entrino nel mercato britannico o per bloccare il proliferare di plastiche monouso, tutti ambiti ai quali prima pensava l’Europa e nei quali ora il Regno Unito fa una fatica enorme a intervenire. È il più importante provvedimento legislativo degli ultimi decenni sulla materia e continua a galleggiare tra governo e parlamento per poi finire in coda alle contingenze del momento, la pandemia, le elezioni del 2019, la Brexit stessa.
I lavori sono iniziati nel 2018, quando Theresa May era ancora primo ministro, la discussione è stata nuovamente rinviata alla sessione parlamentare di primavera perché c’è ancora lavoro da fare sul testo. La prima finestra utile per vederlo entrare in vigore è slittata ora all’autunno, proprio quando il Regno Unito ospiterà la Cop 26 di Glasgow sul clima. Per motivi politici e di immagine, Johnson ha un gran bisogno di arrivarci con i compiti a casa fatti e in ordine, ma il tempo sta scadendo e l’urgenza climatica continua a sembrare tutto meno che urgente. Secondo le organizzazioni ambientaliste britanniche, la legge perde efficacia a ogni passaggio. Uno dei temi più delicati è la creazione di una figura di garanzia, un watchdog indipendente, che possa svolgere la funzione di monitoraggio un tempo affidata all’Europa e i cui poteri, nelle ultime bozze, sembrano tutto meno che efficaci o indipendenti.
L’altro fronte sul quale si gioca la faglia tra le ambizioni a lungo termine e decisioni del presente è il taglio delle emissioni di CO2. L’annuncio a dicembre di una riduzione del 68% aveva stupito il mondo. Eravamo alla vigilia del summit virtuale sul clima per il rilancio allo scoccare dei cinque anni degli accordi di Parigi e Johnson aveva scelto la strada che politicamente gli riesce meglio: alzare l’asticella, con l’opportunismo già mostrato per la Brexit. Nel 2006 aveva deriso David Cameron, il primo conservatore inglese a parlare apertamente di ecologia, durante la famosa escursione in Artico nella quale si fece fotografare abbracciato a un husky. Ora BoJo, come scrive il Financial Times, sta provando a reinventarsi come «green warrior».
Ha promesso una rivoluzione industriale verde per il Regno Unito, articolata in dieci punti, con la promessa di creare 250mila green jobs tra eolico offshore, idrogeno, auto elettrica. Peccato che a gennaio sia stata annunciata l’apertura di una nuova miniera di carbone, cioè la più sporca delle fonti fossili, in Cumbria, nel nord ovest dell’Inghilterra. È la prima nuova miniera di profondità in trent’anni, ha l’obiettivo di estrarre 2,5 milioni di tonnellate di carbone per l’industria dell’acciaio ed è una contraddizione evidente con l’annuncio di un mese prima, o, come hanno detto gli ambientalisti inglesi, «un calcio nei denti alla lotta contro i cambiamenti climatici».
Prima della nuova svolta green, le posizioni ambientaliste di Johnson erano più in linea con quelle dei compagni di populismo oggi completamente o parzialmente in disgrazia, come Trump e Bolsonaro. Ora invece la transizione ecologica è un’opportunità economica (soprattutto per le aree depresse del nord in cerca di un destino) ma è soprattutto un veicolo per rifarsi un’immagine politica, dopo le durezze della Brexit e gli errori nella lotta alla pandemia. Il problema è esattamente quello del greenwashing politico: da un lato piani, progetti, ambizioni, target, dall’altro un’enorme fatica a trovare soluzioni per le contraddizioni ecologiche dell’economia britannica. Il futuro sarà anche idrogeno e pale eoliche, aree protette e bisonti liberi, ma il presente ha ancora l’odore del carbone in Cumbria.