Il mucchio selvaggioCos’è il rewilding e perché potrebbe fare bene all’economia europea

Di fronte al crollo della biodiversità mondiale, una delle soluzioni è recuperare aree selvatiche, dove si possono reintrodurre specie quasi estinte e ricostruirne l’habitat. Secondo questa filosofia, l’uomo torna a farsi animale, lascia il controllo dell’ambiente alla natura stessa e ci guadagna in turismo e salute

da Wikimedia Commons

In Europa il numero degli orsi supera ormai quello dell’America del Nord. La tartaruga Caretta caretta, la più comune, è tornata sulle spiagge francesi. Il camoscio è di nuovo sulle cime delle montagne del continente, e solo nel parco nazionale alpino di Mercantour ha visto la sua popolazione passare da un centinaio (1979) a 10.000 (oggi) nel corso di 40 anni. Non solo: è tornato anche il bisonte, animale diffuso in epoca preistorica, quasi scomparso nel 1927 e mantenuto in vita solo in cattività. Adesso stato reintrodotto in territorio selvatico e (dati del 2016) sarebbe arrivato a contare quasi cinquemila esemplari.

Per i naturalisti francesi Béatrice Kremer-Cochet e Gilbert Cochet, autori di “L’Europe réensauvagée: Vers un nouveau monde”, potrebbe perfino diventare l’animale-simbolo dell’Europa.

Forse esagerano, ma di sicuro, può rappresentare senza problemi il recente fenomeno di rewilding che interessa da qualche decennio il Vecchio Continente.

Il concetto è fondamentale quanto discusso. Per alcuni naturalisti è, detta in modo semplice, la reintroduzione di alcune specie animali nel loro rispettivo habitat, come i lupi a Yellowstone o gli orsi sui Pirenei.

Per altri è, al contrario, qualcosa di molto più importante. Come spiega in questo articolo di Libération Isabella Tree, giornalista inglese e autrice di “Wilding. Il ritorno della natura in una fattoria britannica”, il rewilding «è un modo di affidarsi, di nuovo, alla natura». È la rinuncia, da parte dell’uomo, del controllo dell’ambiente «in modo che la natura possa esprimersi da sola. Noi dovremo rilanciare i processi naturali e guardare cosa succede».

Non si tratta di fare nuove riserve. L’uomo è un animale e deve stare in un ambiente naturale, con altri animali. È quello che pensa Alastair Driver, a capo della ONG Rewilding Britain: per lui il rewilding è un processo in cui gli ecosistemi vengono restaurati in grande scala. Si reintroducono animali e si rimuovono tracce antropiche fino a quando la natura non raggiunge il punto in cui riesce a governarsi da sola.

A far fiorire il fenomeno del rewilding sono state due ragioni. La prima, problematica, si trova nel crollo della biodiversità a livello mondiale. Secondo “l’Indice del pianeta vivente”, realizzato dal WWF, si vede un declino continuo, dal 1970 al 2016, che riguarda il 68% della popolazione dei mammiferi, degli uccelli, degli anfibi, dei pesci e dei rettili in tutto il mondo.

L’ultimo rapporto dell’Agenzia Europea dell’ambiente ha ricordato, solo a novembre 2020, che l’81% degli habitat e il 63% delle specie europee si trovano in uno stato di conservazione precario. O peggio.

La seconda ragione è, invece, è l’ispirazione fornita da alcuni casi concreti, cioè luoghi abbandonati dall’uomo che ritornano, nel corso del tempo, selvatici. Lo si è visto nel caso della foresta di Harvard, negli Stati Uniti, distrutta nel corso del XIX secolo e ora rifiorita. Oppure la cosiddetta “Cortina verde”, cioè il corridoio naturale cresciuto lungo il tracciato della Cortina di Ferro, dove l’assenza di costruzioni e di intervento umano ha favorito il ritorno della natura.

Certo, in alcuni casi la natura da sola non basta. Serve, sostengono i naturalisti, l’intervento umano. Ad esempio reintroducendo animali selvatici (si occuperanno loro di dissodare la terra), o riaprire vecchie vie d’acqua, racchiuse in canali per l’agricoltura, e restituirle al lavoro paziente e sicuro dei castori. Bisogna togliere dighe, eliminare sbarre e cancellare confini.

L’obiettivo è favorire la «libera evoluzione» della natura, lasciandola ai suoi ritmi e ai suoi equilibri. Non bisogna più nemmeno occuparsi della rimozione degli alberi caduti, od organizzare stagioni di caccia per mantenere l’equilibrio tra le specie. Ci penserà la natura a compensare eccessi e mancanze.

I vantaggi sarebbero innumerevoli. I più entusiasti parlano di «equilibrio fisico e psichico», si cita la lotta contro il cambiamento climatico, il riformarsi di nuovi banchi di pesci, e la conseguente ricaduta in fatto di biodiversità marina e fluviale. Ma ci sarebbero buone notizie anche sul fronte economico: rewilding significa anche produzione di nuovi posti di lavoro.

A trarne i maggiori benefici sarebbe la cosiddetta «economia della contemplazione», cioè il turismo di chi vuole esplorare luoghi selvatici per osservare gli animali in natura. Niente di straordinario, soprattutto se si pensa alla fortuna che hanno, tuttora, i safari africani.

Ma non solo: questo genere di turismo in America smuove (dati del 2011) qualcosa come 43 miliardi di dollari. Nel Vecchio Continente i livelli sono più bassi. Ma non è detto che le cose non possano cambiare.

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