Pubblicato originariamente su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
La possibilità di una riforma della costituzione di Dayton è spesso evocata in queste settimane nelle commemorazioni e nei dibattiti sull’anniversario degli accordi. È una possibilità realistica?
Penso che la probabilità di una riforma sostanziale, non solo cosmetica ma che apporti grossi cambiamenti, sia molto bassa. Se anche le élite che attualmente detengono il potere prendessero l’iniziativa, sarebbe solo per una riforma che rafforzi il loro potere. L’unica possibilità di cambiamento è che l’iniziativa venga dall’esterno oppure dal basso, cioè dalle cittadine e dai cittadini.
Se la spinta viene solo dal basso, un esempio di quello che potrebbe succedere l’abbiamo avuto nel 2014, quando ci furono le manifestazioni in diverse città, il movimento dei plenum… In quell’occasione si ottennero le dimissioni di alcuni ministri e la caduta di alcuni governi cantonali, ma poi tutto si è fermò lì, e dopo pochi mesi il movimento si indebolì. Dal basso potrebbe avvenire una ribellione popolare, se continuano tutti i problemi sociali: corruzione, diseguaglianza, peggioramento dei servizi pubblici e in particolare della sanità, inquinamento. Una reazione dal basso è possibile, ma non è sufficiente se non è abbinata a una pressione esterna.
La comunità internazionale, se ha la volontà, ha sicuramente la forza per promuovere un cambiamento. Ma nessuno si augura che siano le forze straniere da sole a democratizzare il paese. Quindi è importante che la volontà provenga sia dall’esterno, sia dal basso.
Tra gli analisti, alcuni sostengono la necessità irrinunciabile di una riforma costituzionale ampia; altri sostengono invece una logica incrementale, con cambiamenti graduali e di piccola scala, in quanto sarebbe l’unica opzione davvero pragmatica e realizzabile. Cosa ne pensi?
Credo che si debbano distinguere due piani. Uno è quello degli addetti ai lavori, cioè gli esperti di sistemi istituzionali che possono formulare le proprie soluzioni ideali secondo i loro parametri e conoscenze. L’altro è quello della realpolitik. E la realpolitik è quella che è. Bisogna trovare una soluzione win-win per tutti. E quando dico ‘tutti’, non mi riferisco solo ai partiti nazionalisti, ma voglio dire che deve avere l’appoggio di una maggioranza in tutti i territori e tutti i principali gruppi che compongono il paese.
Quindi bisogna chiedersi quale modello di riforma possa soddisfare tutti. Piaccia o non piaccia, i tre popoli costituenti e gli attori che li rappresentano hanno i diritti di veto sugli “interessi vitali”, si spartiscono i seggi nella Camera dei Popoli, nella Presidenza, nel Consiglio dei ministri… Qualsiasi speranza di riforma che non voglia aprire conflitti – non necessariamente armati, intendo – deve trovare un consenso ampio tra di loro.
Ma come si arriva a questo? Io penso che sia meglio non cercare grandi riforme, come per esempio cambiare la struttura delle entità o dei cantoni. Sarei per soluzioni più concrete, ad esempio la riforma del sistema elettorale, che è a un livello di azione più basso, anche se delicato. Oppure si può andare ancora più in basso, pensare a come far sì che cittadine e cittadini abbiano più diritti in questo paese.
Su questo punto, tu sei un esperto degli strumenti della democrazia diretta, e autore di diverse proposte a riguardo. Come questi potrebbero essere utili e realizzabili nel contesto della Bosnia Erzegovina di oggi?
La democrazia diretta si potrebbe introdurre ad esempio con i referendum a livello locale, nelle municipalità. Dovrebbero diventare lo strumento di espressione della volontà dei cittadini, e del loro potenziale dissenso verso le scelte delle istituzioni locali, ad esempio sui piani urbanistici, sulle aree verdi. I referendum non dovrebbero avere una funzione consultiva ma dovrebbero essere vincolanti, così da garantire alla popolazione una sorta di diritto di veto. Questa riforma potrebbe avere consenso tra i cittadini di Banja Luka, così come quelli di Sarajevo o di Široki Brijeg.
Sappiamo che la maggioranza delle municipalità, purtroppo, è ormai omogenea etnicamente: tranne poche eccezioni è noto chi, tra i gruppi etno-nazionali, ha la maggioranza e chi la minoranza. Ma proprio per questo, il referendum locale non presenterebbe tanto il problema di un gruppo etnico che impone la sua decisione sulle minoranze, bensì riguarderebbe la gestione della democrazia a livello locale. Invece di parlare dei massimi sistemi e di grandi riforme, che possono essere giuste e desiderabili di principio ma che rischiano di essere poco attuabili e di fare perdere tempo, questo approccio può essere più interessante.
Un’altra soluzione potrebbe essere quella delle assemblee cittadine i cui membri sono estratti a sorte. Sono i cosiddetti mini-publics, che si possono realizzare in qualunque livello: statale, regionale, municipale, di quartiere. Tramite il sorteggio si ottiene un gruppo rappresentativo della popolazione, che discute per alcuni giorni ed esprime un’opinione, se possibile con un consenso, o comunque con una maggioranza ampia. In questo modo si fa capire ai politici attuali come la pensa un cittadino comune sulla questione, privo di pregiudizi, di interessi specifici, di lobby che lo sostengano. Si sfrutta quella che si chiama “intelligenza collettiva”, un concetto che esiste dai tempi di Aristotele: tante persone messe insieme sono più intelligenti di una persona, perché si ascoltano pareri diversi, si discute, ci si mette nei panni dell’altro. Non si può pensare solo ai propri interessi: si è obbligati a pensare al bene comune.
Ci sono state iniziative di democrazia diretta in Bosnia Erzegovina o nella regione post-jugoslava di recente?
Così come le ho descritte, no. Ci sono state iniziative consultive, ma non vincolanti. È interessante notare che nella costituzione della Republika Srpska ci sono alcuni articoli che aprirebbero alla democrazia diretta. Ma il diavolo è nei dettagli. Ci sono ostacoli o soglie di firme troppo alte, rendendo lo strumento di fatto non praticabile. Questo succede in tanti paesi, del resto. L’altra questione è in che modo l’ambito legislativo ed esecutivo possono interferire. Se possono annullare il referendum, o trasformarlo in consultivo e non vincolante, lo strumento diventa uno specchietto per le allodole.
Nel contesto della Bosnia Erzegovina, lo strumento referendario può richiamare rivendicazioni territoriali o identitarie, considerando i precedenti storici degli anni Novanta ma anche l’attualità più recente. Cosa si dovrebbe fare per evitare questa deriva?
Quelli a cui ti riferisci sono gli esempi di ciò che in diversi studi chiamo “referendum plebiscitario”, in cui chi detiene il potere decide di tenere un referendum solo per rafforzare ancora di più il proprio potere, perché conosce in anticipo la risposta. Quello non è un modello di democrazia diretta.
Il referendum può essere uno degli strumenti, purché rimanga a livello locale. Le assemblee civiche estratte a sorte, invece, potrebbero essere usate anche in ambito più ampio, per discutere questioni che il potere non è in grado di risolvere: per esempio, su come riformare la presidenza del paese.
Prendiamo il caso dell’Irlanda: per decenni l’élite politica non è riuscita a fare delle riforme sui diritti civili, perché erano considerati temi sensibili e tabù in un paese molto cattolico. Così alcuni anni fa è stata creata un’Assemblea di cittadini , di cui alcuni estratti a sorte, per discutere di questi e altri temi controversi. E sono giunti a formulare delle proposte, poi sottoposte a referendum. Solo così sono riusciti a discutere di una legge sull’aborto, che era stata bloccata per anni dal Parlamento.
Ora torniamo al sistema istituzionale esistente. In un tuo recente articolo , sostieni la tesi che il modello di consociativismo nazionale – basato sulle quote di rappresentanza, autonomia e diritti di veto dei gruppi etnici, e a cui è fedelmente ispirata la costituzione bosniaca – è necessariamente transitorio: o nel tempo si trasforma in democrazia liberale, oppure tende inevitabilmente a cadere nell’etnoi-crazia, incompatibile con un sistema compiutamente democratico. Ce ne puoi parlare?
In questo articolo sostengo che il modello consociativo è intrinsecamente instabile e porta necessariamente a una di due direzioni. Nella prima, si sviluppa in modo tale che alla fine il consociativismo non serve più e si estingue, perché il paese si trasforma in una democrazia stabile, in particolare grazie alla creazione di un demos, un’identità politica comune che fa sì che non ci sia più bisogno di garanzie di rappresentanza dei gruppi.
Io uso spesso l’esempio dei cattolici di Svizzera, che a lungo hanno avuto dei meccanismi di protezione per avere una rappresentanza nel Consiglio Federale: di 7 membri, 2 erano garantiti alla minoranza cattolica. Il Consiglio Federale svizzero è un organo esecutivo, ma come composizione ricorda la presidenza collettiva bosniaca. Il sistema di protezione dei cattolici è durato per decenni, finché la questione religiosa non ha perso rilevanza e allora è scomparso, semplicemente perché non interessava più quanti cattolici o protestanti ci fossero dentro. Infatti da molti anni sostengo la tesi che la Svizzera non è più un modello consociativo in senso stretto, pur conservandone alcuni elementi.
Se invece il consociativismo va nell’altra direzione, cioé mantenendo quote rigide, chiave etnica… si trasforma di fatto in una etnoi-crazia, cioé in un governo dei gruppi etnici che a quel punto però non è una vera democrazia. Questa è la Bosnia Erzegovina di oggi, ma anche il Libano, l’Irlanda del Nord. L’idea stessa di democrazia consociativa già non funziona a livello concettuale, oltre che empirico: questa insistenza su una società divisa in segmenti e in cui ognuno ha le proprie istituzioni non è compatibile con una piena democrazia.
Arend Lijphart , il principale teorico del consociativismo, in uno dei suoi primi scritti l’ha definito “apartheid volontario”, poi ha capito che non era un’espressione felice e l’ha cambiata. Eppure è vero: se si guarda la Bosnia Erzegovina di oggi, con il modello di segregazione scolastica e altre derive, è una specie di apartheid de facto. E nessuno può convincermi che questo corrisponda a un ideale di democrazia.
Quindi come può la Bosnia Erzegovina odierna arrivare a sviluppare un’identità politica comune, trasformandosi dalla etnoi-crazia a una democrazia compiuta?
Può cercare di evolvere in una demoi-crazia, perché almeno per ora non c’è un demos, un’identità politica comune, ma diversi demoi. Però bisognerebbe fare in modo almeno che siano demoi e non etnoi, cercando di democratizzare il più possibile i singoli gruppi etnici e intanto di costruire un minimo comune denominatore, un senso di appartenenza che superi le divisioni.
Più concretamente, si dovrebbe riconoscere che una delle preoccupazioni dei cittadini comuni, al di là della retorica, è quella di vivere in un paese in cui potere trovare un posto di lavoro, nutrire la famiglia, avere una casa: insomma, vivere in un paese normale. Pensiamo a un/una giovane che ha appena finito gli studi, che è nato o nata anni dopo la fine della guerra, che vive in un paese in cui non si può ignorare il passato, un passato che però lui o lei non ha vissuto. Questa persona si è impegnata duramente, ha finito gli studi, si è guadagnata una laurea. Poi, quando ci sono i concorsi di lavoro nella funzione pubblica o le selezioni nel privato, tutto a un tratto capisce che per ottenere quel posto deve avere tre cose: essere del gruppo etnico giusto, del partito politico giusto, con le amicizie giuste. Nessuno di questi tre elementi basta da solo. Tutto ciò è enormemente scoraggiante. Non è un caso che così tante persone emigrano.
Una possibile soluzione sarebbe introdurre i cosiddetti curricula anonimi. In Francia questo sistema esiste da qualche anno, altri paesi lo stanno introducendo o pensando di usarlo. C’è una letteratura a riguardo che dimostra come il sistema di CV anonimi permetta di superare pregiudizi e offrire opportunità alle persone: non ci sono elementi che permettono di risalire al gruppo etnico, al partito o al genere, almeno nella fase di selezione iniziale, prima del colloquio. Un sistema di questo tipo, ovviamente facendo in modo che funzioni senza trucchi, può ridare fiducia alle persone, facendo capire che non conta l’appartenenza ma quello che si è, e quello che si sa fare.
Cosa c’entra questo con il demos, con un’identità politica comune? Beh, l’appartenenza a uno stato si sviluppa anche così. Se la Bosnia Erzegovina introducesse questo sistema di curricula anonimi, e il sistema funzionasse frenando così l’emorragia di emigrazione dei giovani mentre i paesi vicini non lo facessero, dopo dieci anni ci sarebbero giovani bosniaci erzegovesi di tutti i gruppi etnici che sarebbero fieri di vivere in uno stato con più opportunità di quelle dei paesi vicini. Si tratterebbe quindi di stimolare un’adesione allo stato, non di creare una nazione bosniaca eliminando le identità dei gruppi etnici.
Poco tempo fa è arrivata una nuova sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che condanna le discriminazioni del sistema elettorale in Bosnia Erzegovina. È la sentenza Pudarić, la quinta di questo genere in undici anni – la prima fu la Sejdić-Finci nel 2009 -. Tuttavia la questione dei diritti di cittadinanza negati e della riforma elettorale sembra ormai fuori dall’agenda della politica e dei media in BiH. Potrebbe essere rilanciata l’iniziativa?
È difficile fare previsioni. Purtroppo bisogna ammettere che è una questione che non ha mai sollevato proteste di piazza. Ci sono state iniziative in cerchie urbane e intellettuali, a cui anch’io ho partecipato. Però non ha suscitato reazioni al livello delle proteste che pur hanno riguardato temi civili, come la cosiddetta bebolucija (“rivoluzione dei bambini”), o il movimento Pravda za Davida nel 2018, o il Pride nel 2019, che hanno avuto grande partecipazione di pubblico. Però l’esclusione dei cittadini non appartenenti ai tre popoli costituenti rimane un problema centrale, perché è la discriminazione di uno stato contro i suoi stessi cittadini. Un cambiamento sulla questione sarà possibile solo se ci sarà pressione della comunità internazionale, e in particolare dell’UE nel processo verso l’adesione.
La mia preoccupazione è che si individuerà una soluzione cosmetica, non sostanziale. D’altra parte questo problema esiste anche in alcune parti dell’UE: esiste in Alto Adige o Sudtirolo, come ricordava Alexander Langer, che si era battuto contro quel sistema. Poi in Alto Adige lo si è “risolto” chiamandolo “affiliazione”, invece di appartenenza. Il principio è sempre che se ti dichiari al di fuori dei gruppi riconosciuti, o rifiuti di dichiararti, non hai diritto di candidarti. Ma se decidi di dichiararti “affiliato” ai gruppi, allora puoi partecipare. In teoria anche in Bosnia Erzegovina sarebbe così: basterebbe dire a un ebreo, un rom, un albanese ecc., di affiliarsi a uno dei tre popoli costituenti. Però non sarebbe giusto.
Quale soluzione si potrebbe proporre per il sistema elettorale?
In un libro scritto con Edin Hodžić avevamo proposto un modello in cui, per la presidenza collettiva statale della Bosnia Erzegovina, non avremmo più un rappresentante serbo, un bosgnacco e un croato come è ora: bensì un rappresentante della Republika Srpska, uno di certi cantoni della Federazione di BiH, e uno di altri cantoni della FBiH. Qualsiasi cittadino di qualsiasi parte della Bosnia Erzegovina sarebbe libero di votare per il candidato che vuole in qualunque delle tre circoscrizioni, diversamente da ora: attualmente il rappresentante serbo può essere votato solo dagli elettori residenti in RS, e quelli croato e bosgnacco solo dagli elettori residenti in FBiH.
Però noi avevamo introdotto una “media geometrica”, un coefficiente che avrebbe dato al voto dei residenti in RS più peso per l’elezione del rappresentante della RS, e lo stesso in FBiH: per l’elezione del rappresentante croato i voti dei cantoni a maggioranza croata varrebbero un po’ di più. In Svizzera questo modello si applica nel Canton Berna per la minoranza francofona giurassiana.
L’idea è quella di estendere l’aspetto democratico, dando a tutti i cittadini la possibilità di votare per qualsiasi candidato nel paese, il cosiddetto cross-ethnic vote. Ma questo principio si bilancerebbe con quello collettivo-territoriale: i voti per il rappresentante di un gruppo etnico nel territorio dove abitano in misura maggiore, conterebbero un po’ di più, pur senza un diritto esclusivo.
Avevamo proposto questa soluzione nel 2010 ad alcuni politici bosniaci di diversi partiti e gruppi nazionali. Soluzioni costruttive di questo genere c’erano all’epoca e ci sarebbero oggi. Contrariamente alle soluzioni massimaliste che ciascun partito propone, la nostra si basava sul principio che tutti devono cedere qualcosa e tutti devono ottenere qualcosa. Con questa proposta, ad esempio, Milorad Dodik e i partiti della Republika Srpska perderebbero il diritto esclusivo che hanno adesso: è come se dicessero “noi ci eleggiamo il nostro rappresentante, il resto non ci interessa”. Secondo noi questo non è giusto: qualsiasi cittadino in Bosnia Erzegovina dovrebbe avere la possibilità di votare anche per i candidati della Republika Srpska.
Ma allo stesso tempo, il voto dei residenti in RS per i candidati della RS avrebbe un peso maggiore rispetto a quello proveniente da non-residenti in RS. Inoltre ai politici della RS può convenire che i croati o i bosgnacchi che vivono in RS, invece di influenzare il voto del rappresentante serbo – probabilmente in funzione sfavorevole a Dodik, come è avvenuto negli ultimi anni – scelgano liberamente di esprimere il loro voto per i candidati che si presentano nella FBiH. Per tutti questi motivi la presentavo come una soluzione win-win-win: tutti cedono qualcosa e ottengono qualcosa in cambio. Questa proposta voleva essere uno spunto, ma per ora è rimasta lettera morta.