Per molti incomprensibile, di certo questa crisi politica è la meno trasparente possibile, anzi: è proprio torbida come l’acqua delle pozzanghere. E non è tanto questione del suk apertosi a palazzo Madama. Piuttosto, non c’è motivo di dubitare di quello che ha scritto ieri Massimo Giannini parlando dello «strano network del presidente del Consiglio» in questi termini: «Le cronache narrano di senatori contattati da noti legali vicini all’avvocato del popolo, da presidenti di ordini forensi a nome dello Studio Alpa, da generali della Guardia di Finanza, da amici del capo dei servizi segreti Vecchione, da vescovi e monsignori legati a monsignor Bassetti e altri prelati vicini alla Comunità di Sant’Egidio». In un altro pezzo, sempre sulla Stampa, Marcello Sorgi ha fatto riferimento alla massoneria mentre su Libero si è ripreso un articolo di un anno fa di Maria Antonietta Calabrò su Huffington post dove si raccontava delle numerose entrature ecclesiastiche che Giuseppe Conte può vantare.
Ambienti, pezzi dello Stato, Chiesa cattolica, grand commis, insieme a quei “democristianini” di quinta o sesta generazione che forse s’illudono di ripetere le leggendarie strategie di Aldo Moro, Amintore Fanfani, Giulio Andreotti, Carlo Donat-Cattin, Ciriaco De Mita, Francesco Cossiga, comportandosi come volpi ma, come diceva Andreotti, finendo in pellicceria, personaggi di una storia minore innalzati a leader politici: e dunque ecco il sindaco di Benevento, Clemente Mastella, riprendere l’antica abitudine di tessere tele (di cellophane), ecco Bruno Tabacci. Ed ecco Lorenzo Cesa, con Paola Binetti, che dicono no a Conte perché è meglio restare con Matteo Salvini che un domani darà più posti.
Per Giuseppe Conte, che chissà perché a questi mondi dà l’idea di essere un povero curato di campagna da difendere contro oscure forze laiciste e modernizzanti di cui è sempre bene diffidare, si stanno dunque muovendo nell’ombra e col sussurro forze di una certa potenza a salvaguardia dello status quo. Ma i movimenti di questa maggioranza silenziosa, si sarebbe detto 50 anni fa, ancora non sembrano produrre grandi risultati nella lotteria di palazzo Madama, dove domani il presidente del Consiglio – salvo sorprese – va a giocare alla roulette russa. Quota 161 – la maggioranza del Senato – è fuori portata ma questo è semmai un problema politico e non formale dato che, come viene ogni momento ricordato, basta che i “sì” siano più dei “no” e la fiducia è bell’e ottenuta. Poi però ci dovrebbe essere una – come chiamarla? – “asticella della dignità” al di sotto della quale un premier serio getterebbe la spugna, se si va molto sotto 161 si dovrebbe porre un problema di serietà: se il margine è troppo largo, come può pensare il governo di sfangarla a ogni votazione, in Aula e nelle commissioni?
Per questo la vicenda è ancora da scrivere. L’idea del Pd, soprattutto della componente degli ex renziani di Base riformista, è quella di beccare la fiducia ancorché di minoranza e poi lavorare per cercare di allargarla. In teoria servirebbe una fase di decantazione e poi di ripresa di rapporti con il rinnegato Matteo Renzi ma nelle ultime riunioni – ieri la Direzione – il Pd ha confermato di non avere alcuna intenzione di sotterrare l’ascia di guerra, un orientamento molto duro che, tranne pochissime eccezioni, mette d’accordo le varie anime del partito e addirittura lo salda all’intransigenza del M5s, che pure nei toni è molto più trash, secondo gli stilemi di un redivivo Alessandro Di Battista.
E però al Senato la maggioranza non è maggioranza. Conte dovrà ogni volta chiedere i voti a Renzi, immaginiamoci con quale piacere. Il Pd dovrà contribuire a svelenire il clima, Italia viva già lo sta facendo. Conte, soprattutto, deve decidere cosa fare da grande: oggi prende la fiducia alla Camera, con numeri tranquilli, domani al Senato si gioca il suo futuro politico. E se sopravvive dovrà inventarsi qualcosa di nuovo, dare un qualche segnale di discontinuità e di innovazione, mettendo le mani sulla compagine e rimpastandola un po’. E siamo punto e da capo.