Devo arrendermi, sono centenario. Lo sono stato già l’anno scorso, essendo nato nel 1920, lo sono anche quest’anno, essendo nato per convenienza celebrativa anche nel 1921, quindi lo sono una volta di più, come dire a maggior ragione. Ho una dispensa speciale sul computo degli anni. E devo ripetermi: sono stato un cantante serale e notturno, al chiuso e all’aperto, in night e balere, su altane, terrazze e rotonde, nei giardini, nelle aranciere, nelle limonaie, nei noccioleti, sui belvedere a picco, al limite di baratri turistici nei quali ogni slancio sentimentale si suicida, davanti ai soliti ampi orizzonti pieni di cielo nel quale si aggirano i corvi in smoking e i gabbiani in lino chiaro, feroci e famelici in cerca dei resti di ogni spazzatura amorosa.
Sono stato cantante in case del popolo in mezzo a vorticose politiche danzanti, in saloni colmi di debuttanti montate da panne di chiffon, in bersò, sotto pergolati infrascati e infiorati, in chioschi arabescati e merlettati, scricchiolanti e cadenti, in tutt’Italia, insomma.
Ho cantato, sì, ho cantato tutte le canzoni e, ahimé, la mia carne s’è intrisa di quell’ottima tristezza che ti prende per aver trafitto anime e cuori, e quanto, quanto inutilmente. Ma niente angustie, no, tanto poi, dopo aver fatto da cicisbeo a baci tra rime, viene l’ora di smaltirla quella tristezza con l’allegria funzionale, bella e cinica tra corpi umani.
Da Mallarmé a Wittgenstein la canzone mi pare abbia vissuto la sua stagione più spensierata, giocandosela a colpi di dadi e di parole.
Che voglio dire? Importa qualcosa? Io non voglio dire, voglio solo lampeggiare. Come i lampi lontani, la canzone si avvicina, fa il po’ di sconquasso e poi di nuovo si allontana a dissolvere, o con una piattata che pure si attenua vibrando.
Con essa fuggo anch’io, ogni volta anch’io, anche questa è fatta, canzone dopo canzone raggiungerò la notte laggiù. Laggiù dove? Laggiù dove gli uccelli si inebriano di cielo e anche di mare che pare il cielo, un cielo sconosciuto, che però a volte tenta il volo coi suoi spruzzi.
Niente fermerà questo cuore che si bagna le ali, niente, non i giardini nei quali cantai, non altane e terrazze, non belvederi, non orizzonti né case del popolo, saloni, chioschi cadenti, bersò, pergolati… Oh, notti… non il deserto chiarore di un riflettore dal quale sono fuggito come un albero dondolante di nave, sradicato dal vascello del palchetto.
La mia serata è finita, addio. Salutatemi agitando i tovaglioli, questi fazzoletti esagerati. La carne è debole e ho cantato tutti i sentimenti, li ho buttati in canzone, cestinati come fazzoletti di carta che hanno nettato intimità.
Niente speranza, la speranza è crudele, è l’infido significato di ogni canzone non mia: che infine c’è speranza. Ecco, alla fine ovvero in un infinito non tuo (la speranza ben si addice all’infinito ovvero al naufragare). No, io non ti do speranza, io la sono. Inizia e con me finisce a ogni fine del mio canto, la speranza. Per il resto cantatevela e suonatevela da voi, la vita.
Forse gli alberi, che attraggono i temporali, sono attratti dalle navi sulle quali oscillano fino a spezzarsi come cuori perché gli alberi sono ancora più attratti, forse, dai naufragi senza più alberi fittizi e dondolanti sul mare e senza i soliti verdastri (color verdognola speranza) isolotti del “tesoro mio”.
Comprendi, o cuore, il canto del cantante? Ma tu non comprendi un cazzo, o cuore, vuoi solo la ricetta, o cuore con uso di cucina, o cuore a fette, o cuore tritato, o cuore lasciato sfumare, appassire, o cuore lardellato, o cuore di carciofo fritto dorato.
Questo era Mallarmé nella originale, autentica versione italiana, unica riconosciuta (di questo viviamo, di riconoscimenti segreti, di traffici beffardi, di versacci tra monellacci).
O canto, o brezza marina…Tradotto, ogni titolo è: “Il canto”. Per esempio, Il divino canto, I canti promessi, La coscienza del canto, I Vicecanti, Mastro don Canto, Il Gattocanto, Cantato a morte, eccetera, continuate voi, vi ho aperto gli occhi sulla via dei canti.
Andarono molto tra i giovinastri: Tropico del canto e Canto del Capricorno, Canto a credito e Viaggio al termine del canto, o il futile titolo L’insostenibile leggerezza del canto. Quel che si legge è a volte solo un vanto.
Si può fare anche con i titoli dei film, come no. Il Canto sul tetto che scotta, La gatta sul tetto che canta… Oh, felpata incandescenza di titoli già equivoci, oh, goduria: il canto che scotta sul tetto o il canto infiammato dal tetto rovente o la gatta che canta sul tetto o il tetto che canta sotto la gatta. Oh, generosità dell’esegesi.
Si può fare con tutto, il giochetto, fioccheranno rivelazioni. Con le canzoni no, non con le canzoni, essendo le canzoni già parodie sfinite.
Insomma, col canto nel titolo, ogni opera si risveglia, innalza alberi maestri, gonfia vele orgogliose e corre allegramente a naufragare.
L’opera ama farsi rimirare ambigua, rollando come ancheggiasse, ama farsi rimirare travagliata da “dubbiosa mente” e “dubbiosi disiri”, beccheggiando. Ama lasciarsi guardare mentre si allontana, per poi sparire nel naufragio dolce, ossia finalmente solitario, dell’opera che non più vista si inabissa in sé.
Lascia perdere, non ci pensare nemmeno di seguirla, non andrai oltre la battigia, resterai avvolto, rivoltato dalle onde a riva, mescolato ai frantumi dei fraintendimenti. L’unica rivolta alle volte è farsi arrotolare dalle onde. Accontentati dei tuoi poco turbinosi piagnistei, della tua poco mugghiante lagna, ti basti la risacca.
Ecco, fatti il bagnetto con le tue lacrime, inzuppati in te, o fruitore. Il titolo nascosto de L’infinito? Pochi lo sanno. È, ovviamente: “Il Canto”. Dopo il colle solitario c’è il mare, più solitario ancora, c’è la musica del mare, nella quale musica e nel quale mare mandare a naufragare le parole, il canto.
Come al solito le mani che scrivono, che battono, si sono prese tutto lo spazio. Stavo dicendo che sono centenario e che ho cantato tutte le canzoni e ne ho scritto qualcuna che infilavo certe sere nei repertori, così, per cercare e darmi pace. Ecco, sono state ritrovate e ricantate da una voce assai più bella della mia.
Insomma, devo arrendermi, devo mollare la presa e la riserva, devo lasciarle andare. Ma, ahimé, com’è che non so parlare di me senza parlar d’altro? Non so promuovermi e, come a scuola, mi rimando sempre. Ma ci riprovo, la prossima volta parlerò di me. Per esempio, di Wittgenstein, che qui ho lasciato muto, ma anch’egli cantava, conosceva il segreto: ciò che non si può dire non
lo dire, cantalo.
(Matteo Setti canta “Le canzoni di Vito Taburno”, quattro già
edite, sette prossimamente)