Storie altruiEsegesi di una lettera d’amore scritta per altri

Messaggi e confidenze creati dalle parole irresistibili di Pasquale Pannella per artisti e amici. Storie da lieto fine, dove viene data voce a chi nella vita è massacrato dall’innamoramento

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Ho scritto lettere d’amore, le ho scritte perché ho scritto parole cantabili. Erano forse lettere d’amore le canzoni? No, cioè sì, però no: le parole cantabili vanno ascoltate come lettere dell’amore e non d’amore, dell’amore come merce, di ogni cosa come merce, di ogni sentimento come merce, sono parole che fanno giri virtuosi di parole, realizzano quella che si direbbe economia sostenibile e affettuosa, finanza appassionata.

Le lettere d’amore le ho scritte a causa delle parole cantabili, le ho scritte come lettere vere d’amore con un mittente e una destinataria. Perché mittente è al maschile e destinataria al femminile? Semplice, perché il mittente era lui e la destinataria era lei. E chi era lui? Non era uno, erano più d’uno, erano gli artisti interpreti e compositori, discografici, recordisti (s’usa ancora recordista, l’addetto alle macchine di registrazione dei suoni?), erano i clienti del mio canto, ma anche non addetti alle cose musicali però illusi come tutti d’essere adatti a quelle sentimentali, erano i massacrati dall’innamoramento.

Avevano i loro amori, anzi non li avevano ancora, avevano solo il loro non ancora corrisposto amore (è inutile lo scrivere se tutti hanno un amore corrisposto?). Si trattava, quindi, di corrispondenza, di lettere da scrivere. Mi mettevano al corrente della storia che non era ancora storia d’amore ma tormento e piagnisteo solista: lei distante, perplessa, anzi per niente convinta, titubante, anche sprezzante, assente, presente solo presso il suo recapito postale.

Mi trovavo, quasi mi rinvenivo, sempre d’accordo con lei, ero già al suo fianco, accanto a lei, molto immedesimato tanto che sentivo di dover incantare me con lei, che dal racconto veniva fuori più di lui che raccontava, più decisa nella sua incertezza di quanto fosse lui nella certezza sconclusionata dell’innamorato. Di lei accentuavo in me lo scetticismo.

Lo scetticismo, in amore, ha una gran parte, acuto, sottile e sempre lucido in una donna, presente e franco, un fine osservatore; vile nell’uomo, un sicario nell’ombra, curvo come la sua lama curva, spavaldo solo in atteggiamento codardo.

Pensavo tra me: costei non è per lui. Ma appunto per questo ero attratto, anzi da lì iniziavo. Scrivere non è forse dedicarsi a quel che non è per chi poi leggerà. Al meglio sì, al peggio è il contrario. Così che l’amore altrui era un fatto mio personale… se scrivessi a matita o a penna, qui sospenderei matita e penna e le mordicchierei sulla cima o sul cappuccio, cioè mi atteggerei a pensoso (non è forse, il pensare, un mordicchiare, un maciullar le cime, i picchi dei nostri strumenti, in generale?).

Penserei che c’è un punto di intrusione nei fatti altrui e del mondo, un punto personale di intrusione in ogni fatto che pare estraneo a noi. Ma nulla, poi a pensarci (ci sto pensando), è estraneo a noi dal punto di vista personale. Tutti mordicchiamo qualcosa, le unghie, le nostre pellicine, un angolo di tessuto, la gomma masticabile, la guancia interna, perfino i denti con i denti, afflitti da bruxismo.

Si dice “mordersi la lingua” per non parlare e dire e dare il proprio parere personale, quindi avendolo, quindi mordendo la propria lingua personale, il proprio punto di vista a parole, accecando la propria lingua in un certo senso, anzi incerto (ah, quell’incerto senso!).

Insomma, ho scritto lettere d’amore, non del mio amore (però mi sorge, come la luna nella notte, un dubbio) ma dell’amore direi in generale però adattato al caso particolare. Mi si chiedeva: scriveresti a lei per me, in mia voce, qualcuna delle tue parole irresistibili? Le parole, la pronuncia convincente dell’amore, quel dirlo, che è così difficile. Sì, certo, le persone devono piacersi l’una all’altra. Ma chi lo dice? Forse la vista e poi il tatto, il gusto e l’odorato, l’udito, i sensi, i silenziosi sensi?

L’avanguardia dell’amore un tempo erano i fiori, si inviavano fiori come esploratori e messaggeri col biglietto (le parole sono sempre decisive, ossia esse decidono). Si dice: il linguaggio dei fiori ai quali mancava solo la parola, però scritta sul silenzio di un biglietto. La vista dei fiori, il tatto sui petali e le foglie, anche sulle spine dell’amor pungente. Si raccontano casi di innamorati che su una spina premevano apposta la polpa del dito, lasciando il segno di un alone rosso magari volesse anche lei pungere il polpastrello sulla stessa spina.

Salvo alcuni casi in cui fu masticato un petalo, il gusto si manifestava per traslato ossia come più o meno bella acconciatura in mazzo di quei fiori colti, e poi ancora da un altro cogliere (il principio di bellezza nasce forse da un continuo recidere?), quel cogliere nei fiori ricevuti la bellezza di una forma, gli indizi di una tendenza estetica d’un’arte d’amore, corrente artistica a due, movimento da abbracciare abbracciandosi, costituendone così il vivente manifesto, un pasto floreale in un sol mazzo. Come assaporiamo i nostri cibi e i baci? Con le, così son dette, gemme gustative: è pieno di botanica l’amore.

E il suono per l’udito? Dalle lettere è assente, ma non è assente la voce, la solista assoluta, senza accompagnamento nemmeno di chitarrella o mandolino, senza né fiati né corde vocali. Ma, nelle parole messe assieme, tu la senti, la voce mittente, la mandante, colei che affida alla lettera il compito di agire per suo conto e in suo nome. Mandante, poi, in gergo cavalleresco è la sfidante, colei che, in caso di duello, sfida e dà mandato per lettera ai padrini e ai secondi, ovvero al mondo, di testimoniare, assistere all’ingaggio, redigere, cogliere i segni del primo o dell’ultimo sangue d’amore.

E allora va, letterina, va, ballatetta mia, va, mia canzone sola e solo di parole, va a tentare di non essere più sola. Insomma, è stilnovista l’amore a parole, cavalleresco, cortese, ideale, anzi è un ideale, cioè la sua sostanza consiste in questo: fare di un aggettivo un sostantivo.

E vissero finali favolistici quegli amori dei quali io scrissi l’inizio, finali nel senso di liete fini, e così mi toglievo dai piedi i richiedenti. Sì, richiedenti al maschile, perché gli uomini hanno bisogno di un’altra voce che non sia la propria insufficiente. Le donne no, esse ce l’hanno propria, senza bisogno d’altra. Così come nelle canzoni cadono i maschi, le donne no, esse non ci cascano.

Se qualcuna mi chiese di scrivere una lettera d’amore mi stupì per questo. Ma di più mi stupì quand’io chiesi chi fosse l’imbecille beneficiario, e lei mi disse: tu, mittente e destinatario, scrivi una lettera d’amore, tua a me, ossia mia a te, se sei capace.