Note dolentiLa musica è proibita e non si sa chi canta

È come se con la melodia ci consentissimo, sfrontati e strafottenti, una illiceità, un azzardoso gioco, la dolorosa parodia di fare i seri, la sospensione di ogni contegno, come se sulla strada del buon senso noi percorressimo quello vietato

Unsplash

Quello che mi manca è, spesso, niente. Come lo posso dire: avevo il sole pomeridiano, estivo, di traverso, entrato come un obelisco obliquo nella finestra aperta della cucina.
Quel raggio monolitico si mescolava al vapore della caffettiera perché il caffè stava salendo e usciva dai beccucci: era proprio un obelisco che, abbattuto, sollevava intorno a sé la sabbia aromatica. Il vapore attraversato dal sole pare che si gonfi e moltiplichi il proprio spessore, e pare anche felice per questo. Anche l’odore è visibile e si rinforza, vigoroso, forte, l’odore del caffè che non bevevo ancora, e mi dava addirittura alla testa.
L’aroma, il vapore, la luce: quel senso di vivere in una nuvola d’oro al terzo piano. Ero adolescente, non pensavo che fosse per me il sole né per me il caffè, infatti non erano per me ma erano, così mi pareva, felici, l’aroma e il sole, il vapore e, nel vapore, nell’aroma e nel sole, le persone, perché non era giorno di lavoro. Non avevo nulla, e nulla nella mente, ecco, è questo che mi manca spesso: quel sole nella nuvola, quel nulla, quel niente.
Poi cominciai a desiderare una bellezza presente (non è una rima, questa delle parole ricorrenti in “ente”, è un’armonia, come armoniche sono anche le parole in ere are ore ure ire, desinenze durature).
Detto così, pare un rammarico quel desiderio. No, per niente, anzi ci vissi assai felicemente qualche anno. La felicità, come l’armonia, è aria, tutta aria, cioè non è palpabile, è più fantastica che reale, è una questione di vapori, aromi, luci che come obelischi malfermi si abbattono senza fracasso e senza vetri rotti, è aria e spostamento d’aria. Noi assistiamo per coincidenza felice, felice è la coincidenza, tutta qua la felicità.
Nel melodramma sembrerebbe il contrario, sembrerebbe, così pare, che l’aria sia tutta nella linea melodica, cantabile.
Sembrerebbe ma non è: l’aria è nell’armonia, l’aria intesa come quell’insieme di monumento in fiamme e cadente, di polvere sollevata, di aroma nell’aria di fiori sfracellati al suolo, quella nebulosa che annebbia ogni altra vista con piacere.La melodia no, si pone in primo piano come una coda pestata, guaente e scodinzolante, è dolorosa sempre: quel dolore di perderla nel mentre la si ascolta, di sentirsi perdere nel mentre si fa ascoltare, perché vorrebbe durare ma il suo fine è la sua fine.
Addolorata d’amore sia nello strazio sia nell’esultanza, ama ma infiamma corde vocali e gonfia vene al collo e fa ansimare. Poi si sa: l’amore a pieno regime, fatto e disfatto, provoca le stesse smorfie sia nel dolore sia nello straziante godimento.
Anche la felicità cantata è una piazzata dolorosa, come di chi, senza certezze che la felicità sia vera, la butta in eccedenza, la esagera perché anche credere in essa sia un’esagerazione.
Crediamo più facilmente in quel che è esagerato.
E non parliamo di rabbie e follie, di vendette, invettive, vittorie, di ferraglie a vapore del deragliante rancore. Non parliamone, però, sì, cantiamone. Sono ferite aperte le bocche di chi canta.
Freschissime del sangue degli addii, e ogni canto è un addio. Tutto dolore del canto, insomma, la melodia. Anche il dolore di gruppo dei corali, pure trionfanti: quella dolenza d’essere tanti, inutilmente tanti, a favore o contro, tanti dannati a replicare in coro.
Insomma, la melodia è arredo scenico, quasi un oggetto, tipo una bottiglia che rotola sul palco, sconsolata, tipo una boccia lanciata di raffa o di volo, sfidante, collerica, o rasa al suolo, placida, svenente, ad accostare.
L’armonia è trapezista come l’aria, vuoi trasparente vuoi nebulosa, è nuvola sì, è come è il tempo, sia rombante e cupo sia a veli strappati, a cirri, a cumuli, a nembi a pecorelle, a bolidi leggeri, lenti o in corsa. Come gli esseri umani è fatta, così a occhio, per i tre quarti d’acqua e per un quarto d’ottone, legno, pelli, ossicini, cordame vario, crini, nervi, budelli, pece greca, anche pietre e anche vetro, ferramenta e tubi per campane.
In quest’aria armonica la melodia fa gemiti e lamenti, urla da incidente, infatti lo è, è un incidente. Un pubblico di curiosi, alla guida della propria poltrona, sosta attonito sulla corsia opposta, la platea.
Però l’ho fatta anch’io la melodia e l’ho cantata. Ho scritto “nuvola d’oro”, ora per allora, una volta nella vita, per ostentare una forma proibita. Oppure perché una volta scritta io la perda, come i ricordi che una volta rivelati non li hai più.
Il proibito, già, la melodia: è come se con essa ci consentissimo, sfrontati e strafottenti, una illiceità, un azzardoso gioco, la dolorosa parodia di fare i seri, la sospensione di ogni contegno, come se sulla strada del buon senso noi percorressimo quello vietato.
Ecco perché nell’intimo ci piace, sì, la melodia, che smuove tutti i pianti e le risa che si accoppiano in noi, nel nostro interno, e il mondo che ne sa. Che ne sa il mondo? Ci sono più cose in noi che non si sanno di quante se ne dicono, è ovvio, e di noi soprattutto si dicono le cose che di noi non si sanno: è un giro armonico anche questo.
E solo adesso, qui, su questo rigo, mi viene in mente per associazione, certamente a delinquere, che esiste una romanza, e sempre esisterà, intitolata “Musica proibita”. È una romanza, quasi una canzone, però no, è tutto un melodramma in tre parti, in tre atti, se non tutto il melodramma in un riassunto.
È il brano che più ho cantato, da ragazzino con voce cristallina. Avevo cuore, e adesso mi manca il cuore che mi occorrerebbe per parlarne a lungo, molto a lungo. Dovrei scavallare tutto quello che in me si accavalla. Non lo faccio, lascio che tutto resti accavallato. C’è un mistero in quel brano, un mistero che non è un mistero ma voglio che sia un mistero: per quale voce sia stato composto. È per voce femminile, invece no, invece sì, però è per voce maschile, non si capisce chi canti, sì, si capisce, la canta un garzone, invece no, “più volte la ripete un bel garzone” però “io la vo’ cantare”, io, prima persona cantante, io cristallino ma anche, tra i tanti, Di Stefano, Del Monaco. Insomma chi?
Io, che nel primo atto “ogni sera di sotto al mio balcone sento
cantar una canzon d’amore”, io che canto che sento cantare. Io, il pronome fastidioso (pare che così sia), forse fastidioso lo è perché è il pronome di ogni canzone, anche se cantando si
schermisce, si esime, si attenua, anzi si umilia rendendosi ridicolo, bisognoso di soccorso.
Io, che sto cantando, sento cantare una canzone che “più volte la ripete un bel garzone, e battere mi sento forte il core”. Io canto che sento cantare e ripetere più volte quella melodia, cioè io canto che non canto ma sento cantare. Insomma, la canzone la canta chi l’ascolta come melodia proibita.
Eccola qua, eccola la melodia, “oh, quanto è dolce, oh com’è bella, quanto m’è gradita”.
Secondo atto: “Ch’io la canti non vuol la mamma mia, vorrei saper perché me l’ha proibita”, ecco il proibito siccome melodia. Ora, a quei tempi, nel1881, vilmente si immagina che la proibizione sia inflitta a una ragazza bisognosa di cure materne. Di questi tempi. invece, per voce femminile non funziona, non rende, è fiacchetta, funziona sì per voce maschile, i maschi hanno una mamma proibizionista sempre: non ti darai mica alla romanza, figlio mio. Invece egli si dà.
La romanza ovvero la canzone è là, laddove il maschio, contento
lui, va a far l’illecito, va a trasgredire a ogni precetto e a ogni comandamento, va a recalcitrare e a far capricci, va a penetrare nella proibizione, e il tutto avviene in musica, cioè non nella realtà. Quell’io ci annuncia, cantando, che egli canta. Infatti, dopo due atti di annuncio del canto, ecco che nel terzo atto non solo canta ma ricanta la canzone proibita, perché nel terzo atto la mamma non c’è.
Terzo atto: “ella non c’è ed io la vo’ cantare la frase che m’ha fatto palpitare”. Quale frase? Quale canzone? Questa frase, questa canzone nella canzone: “Vorrei baciare i tuoi capelli neri, le labbra tue e gli occhi tuoi severi, vorrei morir con te…”. La morte, ossia il finale: che non se ne parli più e nemmeno più si musichi. La musica non è se non è proibita.
Tutto è bene quel che finisce. Il sipario è il meglio dello spettacolo, ogni volta.
Ma dopo la fine il dubbio resta nell’aria. È la potenza di questa romanza: la melodia non dirada l’aria. Chi è che canta, questa “Musica proibita”? Chi la canta dall’inizio, chi sopra il balcone con il garzone sotto che passa e spassa e canta? Sempre una lei, si dice nell’ottantuno dell’ottocento. Lei canta che vuol cantare: “… o bella innamorata, tesor mio… stringimi, o cara, stringimi al tuo core”. Ecco perché proibita? Può essere.
Ma no, lei canta che lui, il garzone, canta questa canzone proibita rivolta a lei, e lei la vuole ricantare e la ricanta, se la ricanta addosso, ora che la mamma non c’è ma c’è la frase, c’è una frase che la fa palpitare. Invece no, è un interprete maschile che meglio la rende, perché l’interprete maschile, più dell’interprete femminile, non sa mai quello che dice. È troppo macchinosa al femminile, non credibile perché lei non ci crederebbe. Al maschile è credulità esagerata, quindi esageratamente credibile, puro melodramma, insensato delirio.
E la finiamo qui.
La finiamo qui? Mica tanto. L’autore della musica si chiama Stanislao Gastaldon, aveva vent’anni quando la compose. L’autore delle parole, di quelle parole, le parole che fanno proibita la musica, si firma, se è mai possibile, Flick-Flock, col trattino. È sempre lui, Martino Stanislao Luigi Gastaldon, che con tutti questi nomi si firma Flick-Flock col trattino. Fu vergognoso, ebbe pudore? Arrossì scrivendo il testo proibito? Però ne scrisse anche altri col ticchettante e forse un poco osceno pseudonimo. Fine.
Fine? Non finisce qui la cosa. Come nei verdiani botti finali a
piena orchestra, c’è un altro botto ancora. Stanislao e Flick-Flock come un sol uomo scrissero il seguito di “Musica proibita”, un’altra romanza: “Ti vorrei rapire”. Qui lui è lui, e vorrebbe rapire lei, che è lei, e a lei lui chiede con elegante canto “tesoro mio, il tuo veron disserra”.
Invece no, in partitura tutt’altro è il rapimento, ecco che in mezzo al brano appare para para “Musica proibita”, rapita, tirata via dal suo spartito. Sono tre giorni, come dire tre atti e siamo al terzo, tutta questa canzone è un atto terzo, sono tre giorni che lui non sente cantare la sua fanciulla, non più il garzone, quand’ecco che lei canta la frase che l’ha fatta palpitare: “Vorrei baciare i tuoi capelli neri…”. “Oddio che sento”, egli dice ovvero canta, canta che la sente cantare “la mia canzon diletta”. “Oddio che sento…”, è Flick-Flock che sente, sulla melodia di sé stesso Stanislao, cantare, ricantare e stracantare le sue parole ancora, e le sente cantate da lei. Da lei a chi? Al garzone, forse, che in tutta questa storia non s’è mai visto né sentito? È diceria, il garzone, è un diversivo, si dice, si canta che abbia cantato sotto il balcone la canzone poi mandata a mente da chi ce la ricanta o se la ricanta. Da lei a chi, quindi? Da lei a sé stessa passando per il garzone, oppure a un’altra lei, ignorando il garzone ma non la “bella innamorata, o cara”, oppure a chi? All’autore, infine? Ma non è mai la fine, perché fu per lei che l’autore la scrisse.
È tutto un giro e un raggiro, la canzone, purissimo melodramma riassunto in romanza, commovente delirio. E bravo Stanislao. Non si capisce niente, è tutt’aria.
Il melodramma insegna questo: che a capirle, le cose, perdi l’aria che le circondava coi suoi giochi di luce, aurorali, a picco, crepuscolari, compresi gli artificiali effetti scenici, i nostri soli, le nostre lune, i bui, le stelle e le abat-jour. Per il pianeta terra è un po’ lo stesso, gioca con le sue luci dell’alba, del mezzogiorno e del tramonto, rotolando.
Ogni cosa, tolta l’aria intorno, ogni cosa compresa come cosa, diventa un utensile vantaggioso, profittevole, e tu ne approfitti, tu, profittatore che non sei altro. Così che diventi, sì, profittatore, ma proprio per questo ti manca l’aria, e allora ricorri a quella musicale. E allora: musica, Maestro, facci tornar stupendi, stupefatti, stuporosi, insomma, per dirlo con una sola parola, stupidi.
Così siamo attratti da questa “Musica proibita”, attratti per questo, perché è proibita, e vogliamo che quel canto si ripeta. E infine (ma non è mai la fine) non importa chi la canta. Invece sì, anche.
Bravo Di Stefano ma lega troppo, ammorbidisce, glissa. Bravissimo Del Monaco, feroce, severo. che spezza, stronca ogni speranza: dopo di lui nessuno più si azzardi. Tanto è registrata, la romanza, e torna quando ci pare sotto il nostro balcone. Chissà, è magari lui, Del Monaco, il garzone. Così la facciamo finalmente finita.
Mi sono un po’ troppo dilungato, come un melodramma all’opera, e anche questo racconto è in tre atti e, come in un melodramma, alcune parole sfuggono e non si capisce bene cos’è che sto dicendo. Però, ah, sì, una volta ad Aleppo mi fu chiesto perché leggessi certe parole con la “e” aperta, ora sento Del Monaco pronunciare “neri” con la “e” aperta perché la “e” aperta è melodramma, e anch’io lo sono stato, melodramma e melodrammatico, ecco perché.
“… Se avessi l’ali, ti vorrei rapire e via di lì portarti come il vento e abbracciato con te vorrei sparire tra i fulgidi splendor del firmamento”, così che tutto avviene tra le stelle.
Per me fu uguale ma avvenne con il sole obliquo in faccia, in un nuvola d’oro.
E adesso andate ad ascoltarla la musica proibita di Del Monaco, andate un poco a piangere con occhi feroci, severi, finalmente.

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club