Sarà una cerimonia non aperta ai cittadini quella che si terrà il 20 gennaio sul lato ovest del Campidoglio per l’insediamento di Joe Biden. La decisione, già presa nelle settimane scorse per l’emergenza pandemica, è apparsa ancor più necessaria dopo il recente assalto dei trumpiani alla sede del Congresso e i timori, dunque, di nuove manifestazioni di protesta. Il 46° presidente degli Stati Uniti terrà un discorso, che, incentrato sulla strategia per combattere il Covid-19, ricostruire meglio – espressione, questa, ispirata allo slogan Build Back Better della sua campagna – e riunire il Paese, sarà in linea col tema scelto dallo speciale Comitato congressuale bipartisan per il 59° Inauguration Day: «La nostra risoluzione democratica: creare un’unione più perfetta».
Altri i particolari già noti. Saranno presenti, ad esempio, i predecessori Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama con le rispettive consorti. Toccherà all’afroamericana Andrea Hall, presidente del sindacato georgiano dei vigili del fuoco, leggere il Pledge of Allegiance, il giuramento di fedeltà alla bandiera americana, e a Lady Gaga intonare l’inno nazionale. Amanda Gorman, prima persona a essere stata insignita nel 2017 del prestigioso titolo di National Youth Poet Laureate, reciterà versi poetici e la popstar Jennifer Lopez si esibirà in una performance musicale.
Per il giuramento presidenziale Biden userà la Bibbia di famiglia con croce celtica in copertina che, tramandata di generazione dal 1893, è stata già da lui impiegata durante le cerimonie di insediamento da senatore (a partire dal 1972) e da vicepresidente nel 2005. Secondo una tradizione iniziata il 20 gennaio 1937 con l’inaugurazione del secondo mandato di Franklin Delano Roosevelt e mai interrotta, sono inoltre previste due (talora anche tre) forme distinte di preghiera: l’invocazione iniziale e la benedizione, che qualche volta, come nell’insediamento di Donald Trump, sono state rispettivamente pronunciate da più rappresentanti di diverse confessioni cristiane e da un rabbino.
Tali incarichi sono stati affidati a esponenti del clero cattolico fin dall’inizio, fatta eccezione del periodo 1989-2013, quello cioè da George W. Bush a Barack Obama: nella citata cerimonia d’insediamento di Roosvelt toccò a John A. Ryan, conosciuto come “monsignor New Deal”, tenere per la prima volta la benedizione, mentre si dovrà aspettare l’insediamento di Eisenhower (20 gennaio 1953) per vedere un cattolico, l’allora arcivescovo di Washington Patrick A. O’Boyle, incaricato dell’invocazione iniziale.
Per il 20 gennaio Joe Biden ha puntato su due persone a lui legate da antichi vincoli di amicizia: il gesuita Leo J. O’Donovan per l’invocazione, il metodista afroamericano Silvester S. Beaman per la benedizione. Quest’ultimo è confidente della famiglia Biden da oltre 30 anni come pastore della Bethel AME Church di Wilmington, la città dove il presidente risiede dal 1953. Ha inoltre collaborato con Beau Biden, il primogenito di Joe scomparso nel 2015 per un tumore al cervello, negli anni in cui questi fu procuratore generale del Delaware.
Chi ne celebrò le esequie cattoliche il 6 giugno 2015 fu padre O’Donovan, già rettore della Georgetown University dal 1989 al 2001. Ed è proprio a quegli anni che risale l’instaurarsi della profonda amicizia con Joe Biden, il cui secondogenito Hunter ha conseguito il baccalaureato in Storia nel 1992 proprio presso il prestigioso ateneo dei gesuiti. E il 1992 è anche l’anno in cui l’allora rettore O’Donovan aveva invitato il senatore Biden a tenere una lectio sulla fede e la vita pubblica. Quell’incarico, assolto davanti a 500 studenti radunati nella Gaston Hall della Georgetown, fu definito dallo stesso futuro presidente come il più difficile mai avuto. Nella conferenza Biden preferì toccare aspetti pratici legati all’educazione cattolica ricevuta, dichiarando che «quei valori caratteristici della classe media hanno avuto un’implicazione molto pratica» e che la sua fede gli aveva «insegnato a superare le ingiustizie da combattere».
Padre O’Donovan, che dopo l’invito a pronunciare la preghiera d’invocazione si è chiuso in rigoroso silenzio con la stampa, si è sempre detto «pienamente convinto» che Biden sia «un cattolico profondamente fedele e credente. Non sono nemmeno sicuro fino a che punto si renda conto di quanto incarni il Concilio Vaticano II. Ma la Gaudium et Spes parla della nascita di un nuovo umanesimo in cui le persone sono definite dalle loro responsabilità verso i propri fratelli e sorelle e verso la storia. Questo è Joe Biden».
Ma incarnare appieno il nuovo umanesimo conciliare è proprio il newyorkese Leo J. O’Donovan. Classe 1934, si è laureato con lode in Filosofia alla Georgetown University nel 1956. Solo un anno dopo, durante il soggiorno di studi a Lione quale assegnatario di una borsa di studio del Programma Fulbright, avrebbe deciso di entrare nella Compagnia di Gesù. Allievo presso la Fordham University dove ha conseguito la licenza in Filosofia e poi presso il Woodstock College dove si è licenziato in Teologia, è stato ordinato sacerdote nel 1966. Inviato dai superiori in Germania, ha proseguito gli studi all’Università di Münster, dove è stato discepolo di Karl Rahner e dove, nel 1971, ha conseguito il dottorato in Teologia.
Rientrato negli Usa, ha svolto la sua attività di docente, soprattutto, di teologia sistematica presso il Woodstock College e, successivamente, il Weston Jesuit College of Theology di Cambridge nel Massachussets. Presidente della Catholic Theological Society of America dal 1981 al 1982, O’Donovan è stato nominato nell’89 rettore della Georgetown University. Durante i 12 anni di mandato, che hanno visto tra gli alunni del prestigioso ateneo Filippo VI di Spagna, José Manuel Barroso, Bradley Cooper, Robert Grant e Chris Williams, la Georgetown University ha vissuto uno dei periodi di massimo splendore con miglioramento delle finanze, boom delle domande di ammissione rigorosamente vagliate, personale docente e amministrativo altamente qualificato, particolare attenzione alle minoranze in un’ottica di più ampia inclusione.
Non sono mancate amarezze e polemiche come quella scoppiata negli anni 1991-1992 con l’allora arcivescovo di Washington, cardinale James Hickey, e con il Vaticano per aver finanziato e riconosciuto un gruppo studentesco d’informazione sui diritti all’aborto. La controversia si sarebbe risolta con l’obbligo imposto da Oltretevere di revocare il finanziamento. Ma altre ne sarebbero sorte con le gerarchie ecclesiastiche, sia per aver invitato l’editore pornografico Larry Flint a tenere conferenze sia per aver consentito in università le ricerche su tessuti fetali per i vaccini. Altro clamore quello suscitato nel 1996 alla sua nomina, prima volta per un sacerdote cattolico, a componente del consiglio d’amministrazione della Walt Disney Company. Incarico, questo, che ha detenuto fino al 2007.
Terminato nel 2001 il mandato rettorale alla Georgetown University, padre Donovan ha prima nuovamente espletato il vecchio mestiere di docente di teologia in diversi atenei. Poi, nel 2006, è stato nominato direttore del Jesuit Refugee Service Usa. In questa veste, che ancora esercita, ha assunto posizioni duramente critiche verso la politica migratoria di Donald Trump soprattutto a difesa di immigrati musulmani.
Nel 2018 ha pubblicato con Scott Rose, diacono impegnato nell’assistenza a bambini immigrati, il libro Blessed Are the Refugees: Beatitudes of Immigrant Children, che reca la prefazione di Joe Biden. E proprio sul tema migrazioni il presidente eletto degli Stati Uniti ha partecipato, il 12 novembre, a un evento virtuale di raccolta fondi organizzato dal Jesuite Refugee Service, assicurando che avrebbe portato a 125.000 il numero di nuovi rifugiati da accogliere negli Usa rispetto agli attuali 15.000 previsti dall’amministrazione Trump.