Paper curato da Piero David* e Valeria Schifilliti**
Se vogliamo dare una lettura “resiliente” al 2020 e alla pandemia da Covid-19, possiamo dire con certezza che l’anno appena concluso, drammatico per le famiglie e le economie di tutti i Paesi del mondo, ha accelerato una rivoluzione digitale che, nonostante la diffusa tecnologia che già da anni ha pervaso tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana, stentava ad affermarsi, soprattutto nei processi produttivi. Dalle piattaforme di videoconferenza allo smart working, dal cloud all’e-commerce, sono questi tutti strumenti esistenti da tempo, ma poco adoperati per un’inerzia culturale nell’uso del digitale e nell’organizzazione del personale.
Tale rivoluzione digitale sistemica produrrà a sua volta una rapida trasformazione dell’economia mondiale che nel 2021 entrerà, probabilmente, in una nuova era dove una delle più importanti materie prime del successo di imprese ed economie nazionali sarà, molto più che nel passato, l’innovazione. Se già nei primi venti anni del secolo questo cambio di paradigma si era cominciato ad intravedere, dopo la pandemia la distanza tra i processi ad alto contenuto di innovazione e quelli tradizionali, in termini di valore aggiunto e competitività, si amplierà esponenzialmente in tempi brevi.
Pertanto, la sfida di riuscire a ricostruire dalle macerie del 2020 un’economia competitiva e dinamica passa dal mettere in piedi un sistema che crei e utilizzi in tutti i processi produttivi pubblici e privati, l’innovazione. Le risorse per riuscire in questa impresa ci sono. Col Next Generation EU, attraverso i diversi strumenti messi in campo dalla Commissione Europea (Recovery and Resilience Facility, React EU e Just Transition Fund) per contrastare gli effetti della pandemia e sostenere una ripresa equilibrata e sostenibile (circa 209 miliardi ripartiti in 81,4 miliardi di sussidi e 127,4 miliardi di prestiti), insieme ai 37,3 miliardi di fondi strutturali, il prossimo ciclo di programmazione 2021-2027 si presenta senza dubbio come l’occasione, in un certo senso storica, per l’Italia di intervenire sui propri limiti strutturali e divenire un sistema economico moderno ed efficiente.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ha (al momento) individuato diverse missioni e riforme a supporto. Tra queste, la componente C2 della Missione 1 – Innovazione, competitività, digitalizzazione 4.0 e internazionalizzazione (con una dotazione 32,4 miliardi euro) potrebbe rappresentare l’occasione per la parte più dinamica del nostro apparato produttivo per ritagliarsi uno spazio nella competizione globale. E la componente C2 della Missione 4 – Dalla ricerca all’impresa (con una dotazione di 8,48 miliardi di euro) dovrebbe rappresentare la strategia per far incontrare il mondo della ricerca con quello delle imprese.
Nel dibattito che si è aperto sul PNRR e sulle Linee Guida della Commissione, sarebbe utile introdurre un tema trasversale alle sei missioni proposte dal Governo ed alle sette iniziative flagship indicate dalla Commissione: quello di una collaborazione strutturale tra università e industria, importante driver dell’economia nel promuovere la competitività regionale attraverso l’innovazione tecnologica, la cosiddetta “terza missione” dell’Università (Etzkowitz, Webster, Gebhardt, & Terra, 2000). Mediante questa terza missione, gli atenei, soprattutto statunitensi e inglesi, hanno rafforzato le relazioni tra mondo accademico, società e territorio, promuovendo il trasferimento della ricerca generata all’interno dell’università, all’industria e divenendo il principale meccanismo di innovazione dei prodotti e dei processi produttivi.
La realtà americana e dei Paesi europei
Negli Stati Uniti, già con l’approvazione del Bayh-Dole Act nel 1980, è stato introdotto uno stimolo alla creazione di brevetti universitari, consentendo ai ricercatori di ottenere valore economico dal proprio lavoro attraverso finanziamenti federali (D. C. Mowery, Nelson, Sampat, & Ziedonis, 2001). Inoltre, con l’introduzione del tribunale dei brevetti ed un ambiente legale favorevole alla tutela della proprietà intellettuale (Arora, Fosfuri, & Gambardella, 1995), le università hanno promosso la creazione e lo sfruttamento di brevetti con l’istituzione di Uffici di Trasferimento Tecnologico (TTO) che hanno incoraggiato la formazione di Spin-Off Accademiche (ASO), imprese create al fine di commercializzare i frutti derivanti dalla ricerca universitaria. Di conseguenza, il numero di brevetti nelle università statunitensi è cresciuto rapidamente, raddoppiando nel periodo tra il 1979 e il 1984 ed aumentando con una quota del 3,6 percento nel 1995 a partire dall’1 percento del 1975 (D. Mowery, Nelson, Sampat, Policy, & 1999).
Tale approccio sull’uso dei brevetti si è progressivamente spostato in Europa, in particolare nel Regno Unito, raggiungendo successivamente anche gli altri Paesi Europei. Secondo il Survey Report dell’ASTP-Proton, la stragrande maggioranza (92%) degli Uffici di Trasferimento Tecnologico in Europa può contare non meno di un brevetto concesso o una domanda di brevetto nel proprio portafoglio con un tasso medio del 21% relativo alla concessione di licenze. Raccogliendo dati da oltre 400 organizzazioni europee, l’ASTP-Proton Report ha anche esaminato la creazione di imprese spin-off mostrando una regolare attività all’interno della comunità europea, evidenziando la formazione di 640 nuove spin-off nel 2015.
Tabella 1. Attività relative alla Proprietà Intellettuale negli Uffici di Trasferimento Tecnologico (ASTP Proton, 2015)
Attività Proprietà Intellettuale | |
Divulgazione delle invenzioni | 11,301 |
Nuove domande di brevetto | 2,802 |
Brevetti concessi | 1,079 |
Famiglie di brevetti attive nel 2014 | 18,762 |
Al contrario, i Paesi del Sud Europa si sono mostrati più lenti non solo nell’approvazione della normativa di riferimento, ma si sono rivelati anche deboli nei propri sistemi di ricerca (Cesaroni & Piccaluga, 2005). In Italia, la prima proposta di legge sull’imprenditorialità accademica è stata la legge n. 383/2001, successivamente integrata nel 2005 con il nuovo Codice ufficiale dei diritti di proprietà intellettuale seguito dal Regolamento di attuazione del Codice della Proprietà Industriale del 2010. La prima norma del 2001 ha introdotto il cosiddetto Professor’s Privilege, secondo cui, le invenzioni sviluppate in ambito accademico (o presso gli enti di ricerca pubblici) appartengono ai professori o ricercatori che le hanno concepite e non alle strutture di ricerca (Atenei, Enti) che tuttavia ne sostengono i costi di sviluppo, limitando di fatto la possibilità delle Università di finanziarsi tramite il trasferimento tecnologico.
Se da una parte con queste leggi il governo ha dimostrato il proprio interesse a sostenere la commercializzazione della ricerca universitaria, dall’altra, agevolando i professori, limita la commercializzazione delle invenzioni, poiché questi ultimi hanno più interesse a pubblicare le loro “invenzioni” piuttosto che brevettarle, dipendendo la carriera accademica principalmente dalle citazioni degli articoli pubblicati, i quali, nella valutazione del sistema universitario, hanno più importanza dei brevetti. Ed infatti, i soli Paesi europei in cui il Professor’s Privilege è ancora in vigore sono l’Italia e la Svezia, mentre l’evoluzione normativa degli altri Paesi ha mostrato un progressivo abbandono di tale approccio (Tabella 2). In particolare, gli altri Paesi Europei hanno adottato il sistema dell’Institutional Ownership, il quale prevede che l’istituzione per cui il ricercatore lavora, diventi proprietaria dei risultati della ricerca finanziata con fondi pubblici, e, detenendone i diritti di proprietà intellettuale, ottenga i benefici economici che ne derivano dal brevetto.
Tabella 2. Evoluzione del sistema di proprietà intellettuale in Europa (Martínez, Catalina and Valerio Sterzi, WIPO 2018)
Cambiamenti nelle policy | Nazione | Anno |
Abolizione del Professor’s Privilege | Danimarca | 2000 |
Germania | 2002 | |
Austria | 2002 | |
Norvegia | 2003 | |
Finlandia | 2007 | |
Maggiore potenziamento del sistema di proprietà intellettuale | Regno Unito | 1977 |
Spagna | 1986 | |
Francia | 1999 | |
Svizzera | 1991 | |
Belgio | 1997 | |
Portogallo | 1998 | |
Introduzione del Professor’s Privilege | Italia | 2001 |
Proseguimento del Professor’s Privilege | Svezia | 1949 |
È vero che Paesi come Italia e Regno Unito presentano strutture diverse nei loro sistemi nazionali, scientifici e tecnologici. Da un nostro lavoro di ricerca sul fenomeno delle Spin-off accademiche a livello europeo, emerge infatti che su 920 spin-off italiane, soltanto l’8,14% sono state oggetto di operazioni societarie, mentre non si può dire lo stesso per il Regno Unito dove su un campione di 1048 spin-off, il 97% delle imprese è stato oggetto di accordi commerciali. In altre parole, le ASO inglesi risultano molto “più appetibili” di quelle italiane, ma in questo ha giocato un ruolo importante, come detto prima, anche la normativa di riferimento.
Un caso interessante è quello tedesco dove la promozione degli spin-off universitari non avviene solo a conclusione del percorso di studi, ma in tutte le fasi della formazione accademica. La cultura di impresa è presente in tutti i dipartimenti, nel campus, nell’amministrazione universitaria e vi è una costante disponibilità a riconoscere le opportunità imprenditoriali, ad apprezzarle e metterle in atto. La Germania, da oltre vent’anni finanzia, grazie anche al Fondo Sociale Europeo, il programma EXIST che promuove la cultura delle start-up dentro le Università. Il programma si divide in tre filoni:
1) Promozione della cultura di impresa all’interno delle Università, dove vengono finanziate la creazione di uffici dedicati all’interno dell’amministrazione, centri di competenza, corsi, networking con il territorio.
2) Borse di studio di un anno ed un contributo in denaro per la fondazione di un’impresa (tipicamente imprese ICT). Possono concorrere studenti, laureati, dottorandi, ricercatori.
3) Trasferimento della ricerca alle grandi imprese. Consiste di due fasi: a) sostegno all’attività di sviluppo sino al prototipo, in media con 250 mila euro; b) sino a 180 mila euro per la commercializzazione. Ne usufruiscono in maggioranza imprese bio-medicali e materiali.
Da citare, infine, anche i casi di Olanda e Francia. La prima, che mediante la creazione dell’Academic Startup Competition – iniziativa per la valorizzazione degli spin-off accademici, in cui i vincitori sono scelti in base alle proposte, all’innovazione tecnologica, al potenziale del modello di business, del fatturato ed alla composizione del team – ha fatto emergere come l’elemento della forte collaborazione di realtà istituzionali quali l’Associazione delle Università (VSNU), la Federazione Olandese dei Centri Medici Universitari (NFU), l’Accademia Olandese di Tecnologia e Innovazione (AcTI) e Techleap, determini un contesto utile al potenziamento della creazione delle realtà imprenditoriali ad alto contenuto innovativo.
La Francia, invece, ha recentemente strutturato meccanismi di collaborazione territoriali e nazionali che hanno fatto si che l’ecosistema delle startup accademiche sia cresciuto in maniera quantitativamente rilevante sino a oltre 4.000 aziende create (dati 2016) con un contesto istituzionale ed economico solido a loro favore e, nell’ultimo anno, anche con misure che hanno definito un complesso di norme dedicate a sgravi, detassazioni, incentivi a beneficio delle imprese.
Dimensione italiana e proposte per il rilancio
Guardando all’Italia e considerando la fase di rilancio del suo sistema economico e industriale, quali interventi di policy si potrebbero adottare per rafforzare la realtà delle start-up accademiche?
L’art. 38 del DL Rilancio ha introdotto alcune misure importanti per il rafforzamento dell’ecosistema delle startup innovative, potenziando il Fondo Nazionale Innovazione e permettendo alle persone fisiche una detrazione Irpef del 50% dell’investimento nel capitale sociale di una startup innovativa. Tutte agevolazioni utili, ma in questa fase serve qualcosa in più. Soprattutto per gli spin off universitari.
Innanzitutto, si potrebbe sperimentare un credito d’imposta del 100% (con un tetto di 100 mila euro in tre anni) per quelle imprese che decidono di investire risorse in un progetto di una startup accademica. Tale misura, oltre a finanziare investimenti ad elevato valore aggiunto, avrebbe effetti moltiplicativi molto importanti nel medio e nel lungo periodo incentivando gli Atenei nel trasferimento della ricerca e migliorando la produttività del sistema economico nel suo complesso.
Un secondo intervento potrebbe agire sul matching tra domanda ed offerta di tecnologie e processi innovativi attraverso la formazione dei cosiddetti broker dell’innovazione, figure diffuse a livello internazionale che hanno il compito di identificare tecnologie emergenti ed incentivare partnership tra imprese e ricerca; queste figure sono state introdotte dalla Commissione Europea nel 2010 tramite i Pei (Partenariati europei per l’innovazione) che ne hanno dato una prima definizione relativamente alla promozione del settore agricolo, ma potrebbero estendersi anche a tutti gli altri ambiti.
Un terzo provvedimento potrebbe riguardare una forma di sostegno economico alle spin-off universitarie, finalizzata al finanziamento delle spese per i diritti di proprietà intellettuale (ad esempio creazione di brevetti) in modo da sgravare le neonate realtà imprenditoriali da costi burocratici che potrebbero rivelarsi una barriera disincentivante alla nascita di nuove imprese.
Da ultimo, mettendo in sinergia Università e Centri di ricerca, si potrebbero finanziare la nascita, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno, dei Parchi Scientifici e Tecnologici e servizi connessi, sul modello del friulano Area Science Park, struttura che si occupa di trasferimento tecnologico e valorizzazione dei risultati della ricerca scientifica e che nella sua lunga attività ha interessato circa 2.500 imprese e più di 3.100 operazioni di innovazione.
Accanto alle sei missioni del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, forse quella del rafforzamento strutturale del trasferimento tecnologico è la premessa per uscire dalla pandemia con un sistema di ricerca applicata moderno, in grado di attrarre investimenti e competere nei mercati internazionali.
*Piero David è Ricercatore in Economia Applicata presso l’ISMED di Palermo.
**Valeria Schifilliti è Ph.D. in Economics, Management and Statistìcs presso l’Università di Messina.