Energia pulita a costo zeroLa fusione nucleare potrebbe essere la soluzione alla crisi climatica, ma serve ancora tempo

Accendere un reattore richiede un input ancora superiore alla quantità di energia che è in grado di produrre. Ma questo decennio potrebbe essere decisivo per arrivare alla svolta nella sostenibilità ambientale: il progetto Iter, a cui partecipa anche l’Enea, punta a dimostrare entro il 2025 la realizzabilità dell’operazione

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Per pochi secondi un’energia paragonabile a quella prodotta dalle stelle ha brillato sulla Terra. Lo scorso 24 dicembre il Korea superconducting tokamak advanced research (Kstar) – un reattore per la fusione nucleare – del centro di ricerca National Fusion Research Institute di Daejeon, in Corea del Sud, ha raggiunto temperature superiori ai cento milioni di gradi. Per venti secondi. Andando oltre gli otto secondi del 2019.

È un risultato eccellente per un settore di ricerca in cui da anni si investono milioni ed energie ma ancora non è riuscita a produrre risultati concreti. Nessun esperimento ha raggiunto un bilancio energetico soddisfacente: accendere un reattore come quello del centro di ricerca coreano richiede un input energetico ancora superiore alla quantità di energia che è in grado di produrre.

Ma i miglioramenti fanno pensare che è ancora troppo presto per smettere di investire, credere e sperare nella possibilità di produrre energia da fusione nucleare. Lo dice a Linkiesta il responsabile divisione Tecnologie per la fusione nucleare della Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) Giuseppe Mazzitelli: «L’energia che si potrebbe produrre con la fusione nucleare sarebbe tale da cambiare le prospettive energetiche dell’umanità, in un mondo diretto verso un consumo sempre maggiore».

Intanto si tratterebbe di produrre energia pulita, senza scorie da smaltire. La fusione nucleare unisce nuclei di atomi leggeri (come il deuterio e il trizio) con una grande quantità di energia, dando come risultato il nucleo di un nuovo elemento chimico la cui massa è minore rispetto alla somma della massa di partenza: la reazione produce infatti principalmente particelle ad alta energia trasportate da neutroni e particelle alfa.

Si tratterebbe anche di una fonte di energia praticamente inesauribile. «Il deuterio ad esempio è contenuto nell’acqua, e la parte che viene estratta da 500 litri d’acqua sarebbe sufficiente a soddisfare in termini energetici il fabbisogno di un cittadino europeo medio, per tutta la sua vita. E dopo quell’acqua è ancora potabile. Questo rende tutto il processo estremamente sostenibile», dice Mazzitelli.

Il processo di fusione è anche sicuro. Il suo funzionamento è comparabile a quello di una caldaia, che se non alimentata si spegne. Il plasma della fusione è un gas ionizzato a pressioni modeste e non è in grado di generare esplosioni.

L’interrogativo, piuttosto, è perché insistere su una tecnologia del cui funzionamento ancora non abbiamo certezza. Sapendo che invece l’energia da fonti rinnovabili, dall’eolico al fotovoltaico e l’idroelettrico, è già una realtà e può essere perfezionate. «Uno dei motivi per cui si investe nel campo della fusione – dice Mazzitelli – è che le prospettive che abbiamo in termini di produzione di energia elettrica sono estremamente affascinanti. E non è da considerarsi alternativo alle rinnovabili, le quali non hanno ancora, in prospettiva, la capacità di soddisfare a pieno il nostro fabbisogno energetico, ma si affiancherebbe a queste facendo anche da backup per la loro intermittenza».

Uno dei progetti più promettenti è Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), nato dalla collaborazione tra Unione europea, Stati Uniti, India, Giappone, Corea del Sud e Russia. Il programma prevede la costruzione di un reattore sperimentale – iniziata lo scorso luglio – a Cadarache, nel sud della Francia, che dovrebbe diventare operativo nel 2025.

Questa data è diventata così uno spartiacque nell’obiettivo di raggiungere la produzione di energia elettrica nella seconda metà di questo secolo: «È per questo che il decennio appena iniziato sarà probabilmente quello decisivo nel determinare i risultati degli studi sulla fusione nucleare», spiega Mazzitelli.

Il progetto Iter è costato oltre 13 miliardi di euro e dovrà dimostrare la fattibilità tecnica della fusione nucleare come fonte di energia, sostenendo la reazione di fusione nucleare per un tempo abbastanza lungo. Deve poter produrre 500 megawatt di energia da fusione, e deve poterlo fare riscaldando il plasma a temperature nell’ordine dei 150 milioni di gradi.

Se il progetto Iter dovesse raggiungere i risultati prefissati si procederà con l’attivazione del Demonstration Power Plant (Demo), un prototipo di reattore nucleare a fusione studiato dal consorzio europeo Eurofusion che sarà ideale successore del reattore sperimentale Iter e dovrà produrre energia elettrica. «Passare da Iter a Demo significa passare da un oggetto che produce 500 megawatt a uno che ne deve produrre almeno 2000. Mentre Iter deve dimostrare che si può ottenere dal plasma più energia di quanta se ne consumi, Demo deve dimostrare la produzione di elettricità da fusione. Questo è l’ultimo reattore di ricerca sulla fusione nucleare prima della messa in opera dei reattori commerciali veri e propri previsti per il 2050», spiega a Linkiesta Tony Donné, programme manager di EuroFusion.

Il lavoro che viene fatto su Iter, in Francia, assume così un’importanza capitale. E l’Italia è uno dei Paesi coinvolti maggiormente nel progetto. Il lavoro di ricerca degli ultimi anni ha permesso al nostro Paese di acquisire know how e capacità applicativa tale da aggiudicarsi le più importanti gare pubbliche di Iter, per un totale di oltre 1,2 miliardi di euro.

Nei laboratori Enea di Frascati si lavora alla parte più tecnologica di Iter, in particolare al progetto Dtt (Divertor Tokamak Test) che punta alla realizzazione di un divertore in grado di espellere i prodotti della fusione nucleare che si generano all’interno di un reattore («possiamo immaginarlo come la parte finale di una marmitta», spiega Mazzitelli), in grado di resistere ad altissime energie. Ma ci sono anche altre aziende coinvolte, da Fincantieri a Ansaldo Energia, da Vitrociset a Asg Superconductors alla Walter Tosto.

Guardando all’intero panorama della fusione nucleare, anche Eni si sta ritagliando un ruolo da protagonista tra le aziende che investono nel settore nel tentativo di produrre energia in questo modo: nel 2018 ha sottoscritto un accordo da 50 milioni di dollari con Commonwealth Fusion Systems (Cfs), start up nata all’interno del Massachusetts Institute of Technology (Mit), con cui ha acquisito una quota del capitale di Cfs per sviluppare il primo reattore a fusione commerciale in grado di funzionare continuativamente. «È una sfida che Eni intende realizzare con un partner d’eccellenza come il Mit, che sulla fusione ha un’esperienza di lunghissima data», fanno sapere dalla società fondata da Enrico Mattei.

Come spiega Donné solitamente gli studi sulla fusione nucleare vengono condotti da centri di ricerca con fondi pubblici, dal momento che occorrono enormi grandi quantità di denaro per progettare e costruire gli impianti sperimentali.

La Banca europea per gli investimenti (Bei), ad esempio, nel 2019 aveva deciso di investire 250 milioni di euro per finanziare la ricerca sulla fusione attraverso l’iniziativa Dtt dell’Enea. Il vicepresidente della Banca, Dario Scannapieco, l’aveva definito «un progetto bandiera all’interno dell’Unione europea: per la finalità, cioè ottenere energia nucleare pulita entro 30 anni; per le modalità di finanziamento; per le caratteristiche del progetto che sarà realizzato da Enea e che produrrà ricadute positive sull’indotto; per il fatto che sarà un progetto europeo non solo dal lato finanziario, ma anche per la ricerca, con il coinvolgimento di una pluralità di centri di eccellenza di tutta l’Unione».

Nell’ultimo periodo però le prospettive allettanti di produzione di un’energia pulita con enormi ricavi hanno attirato l’attenzione di aziende private in tutto il mondo – sia con l’attivazione di progetti propri, sia con il finanziamento ad altri enti di ricerca.

Ad esempio Cfs, che si è data l’ambizioso obiettivo di produrre energia dalla fusione nucleare entro i prossimi 15 anni, è supportata anche da Breakthrough Energy Ventures (Bev), un fondo finanziato da un gruppo di miliardari, di cui fanno parte Bill Gates, Jeff Bezos, Jack Ma, Mukesh Ambani e Richard Branson.

«Gli investimenti privati non mancano nemmeno in Europa o in Asia, ma nonostante gli sforzi sono ancora troppo bassi per poter pensare di avvicinare la data in cui produrremo energia da fusione nucleare», spiega Donné.

La sua critica non guarda solo alla mancanza di fondi, quindi eventualmente di personale nei laboratori o di formazione di nuovi ingegneri e scienziati che potrebbero lavorare a questi progetti. «Penso che parte della politica sia intrinsecamente contraria al nucleare, forse perché si sono convinti di esserlo quando hanno detto no alle centrali a fissione, che non è affatto la stessa cosa. E poi c’è un problema di prospettive: senza entrare nel merito dei singoli, ma credo che molti ragionino su una scala temporale di 4 anni, a volte 8 se pensano di essere rieletti. Ma qui si tratta di pensare e immaginare il nostro futuro tra 20 o 30 anni. Quindi di progettare il percorso che vogliamo fare per arrivare a quel punto lì».

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