Un paese in lockdownC’è (dolce) vita là fuori, ma serve un nuovo modello italiano

La pandemia ha privato l’Italia del suo genius loci, e cioè di quel “nostro” modo di goderci la vita. Ma se proveremo a fare gli adulti e ad ascoltare le donne, potremo ricostruire economia e tessuto sociale proprio sull’inclinazione alla bellezza. Sul magazine de Linkiesta con il New York Times

AP Photo/Gregorio Borgia

L’Italia pre-pandemia era un Paese disorganizzato, impoverito, ma ancora felice di essere Italia perché conservava un’opportunità di “dolce vita” per tutti grazie al clima, alla bellezza gratuita del mare e delle montagne, alla cultura della piazza che da sempre, qui, mette il divertimento e la socialità interclassista alla portata di chiunque. Senza quel tipo di “dolce vita” – stroncata dal Covid – l’Italia vede deperire il suo genius loci, lo spirito dei luoghi che informa le biografie individuali e collettive. E si capisce perché nella temperie del lockdown gli italiani abbiano litigato soprattutto parlando di discoteche, ristoranti, cene, cenoni, impianti sciistici, raduni familiari e assai meno di scuola o lavoro. La qualità del tempo libero, qui, non è un accessorio. La qualità del tempo libero, qui, è la vera risposta alla domanda che molti italiani si fanno da anni: «Perché resto in Italia? Perché non me ne vado altrove?».

Il 2020 ha richiesto al Paese uno strappo culturale superiore a ogni altra nazione europea e il 2021 alzerà ulteriormente la posta. Una parte non piccola dei cittadini ha visto la sua way of life seriamente minacciata o addirittura azzerata. Niente più weekend al mare, niente più giornate sulla neve. Niente più eventi, mostre, prime teatrali, presentazioni di libri, shopping, luoghi dove esercitare l’arte dello stare al mondo. Niente più raduni famigliari e uscite di gruppo, che in Italia non sono solo il nocciolo rituale di una tradizione ma l’obbiettivo delle giornate e delle settimane: si lavora, anche duro, sapendo che alla fine ci si siederà a tavola, con gli amici, con i parenti, poco importa se per la cena esagerata o per la merenda vegana.

La propensione nazionale per questo tipo di socialità è stata enormemente rafforzata dagli anni della crisi. I bassi stipendi e la precarietà del lavoro – il salario medio degli under 30 è di 830 euro al mese, ai limiti della soglia di povertà – hanno reso proibitivi progetti di lungo periodo come comprare o affittare una casa, costruire una famiglia, accendere un mutuo per aprire un’attività, ma, fuori da queste prospettive, rappresentano un considerevole argent de poche. Se vivi ancora coi genitori, se non devi pagare le bollette o le spese per un figlio, 830 euro sono un buon budget per il divertimento. Insomma, la “dolce vita” italiana non è solo figlia di una propensione edonistica, ma anche di un modello economico in declino, una sorta di premio di consolazione per le scarse opportunità offerte dal sistema Paese.

Senza il benefit “sole cuore amore”, nel 2021 delle domande indecifrabili (Basterà il vaccino? Finiranno le restrizioni? Sopravviveremo ai licenziamenti di primavera?) l’Italia è destinata fatalmente a rivelarsi ai suoi cittadini come una nazione dove è poco conveniente vivere, lavorare, fare progetti. Un Paese triste. E infatti i due effetti del virus già statisticamente determinati sono entrambi legati alla depressione individuale e sociale: un nuovo crollo della natalità e un’accelerazione dell’emigrazione all’estero. L’Istat prevede un record negativo degli indici demografici: dai 420mila nuovi bambini registrati nel 2019 (la quota più bassa in 150 anni) si scenderà addirittura a 393mila, forse anche meno. Gli scenari sull’emigrazione sono più confusi. Tra il 2019 e il 2020 è aumentata dell’8,1 per cento e l’opinione generale è che alla ripresa della mobilità tra nazioni una quota ben superiore farà le valige e se ne andrà in cerca di miglior fortuna.

Entrambi i fenomeni vedono come “parte decidente” le donne, che in Italia sono state penalizzate dall’epidemia molto di più rispetto agli uomini, visto che è toccato a loro sopportare il maggior peso della chiusura delle scuole e dell’impraticabilità della sanità “ordinaria”, trasformandosi in badanti o baby sitter a tempo pieno. Il Recovery Plan offre loro scarse prospettive: anche se andasse in porto nei tempi brevi, è tutto puntato sulle infrastrutture e quindi su lavori quasi esclusivamente maschili. Perché restare? Perché azzardare un figlio in queste condizioni?

E tuttavia il 2021 porta con sé anche un’altra potenzialità, un possibile choc post-traumatico di segno diverso, in politica e nella società. Siamo stati il Paese più incline a cavalcare le futili rivendicazioni populiste, quando sedevamo al tavolo dell’aperitivo inveendo contro gli immigrati e la perfida Europa, immaginando impossibili autarchie che ci avrebbero reso tutti più ricchi e più felici. Il Covid potrebbe accelerare l’uscita da questa infinita adolescenza obbligando gli italiani a diventare adulti, a rivedere le priorità e gli stili di vita nonché le diffuse maldicenze sull’Unione matrigna. E non è impossibile che la ricerca di “dolce vita” prima affidata all’aggregazione metropolitana si ricollochi progressivamente altrove. Ad esempio, nelle opportunità che apre lo smart working a una nazione di borghi spesso bellissimi e ben collegati, dove sarebbe possibile insediare non tanto un utopico ritorno ai vecchi tempi ma un modo nuovo di vivere la modernità, di attrarre investimenti e capitale umano.

Certo, serve un modello. Un’idea di Paese che associ al tran tran dei garantiti (i pensionati, i lavoratori pubblici a reddito certo) nuove prospettive per gli altri e soprattutto per le donne, che potrebbero qualificarsi come vero motore della resilienza. Un progetto che traduca in realtà l’ispirazione green dei finanziamenti europei – un’ispirazione che sembrerebbe fatta apposta per noi – e non sciupi le enormi opportunità economiche del Next Generation Eu in ambizioni modeste o addirittura fraudolente. Il genius loci italiano, cioè l’inclinazione alla socialità e alla bellezza, potrebbe addirittura uscirne irrobustito, e la domanda “Che ci faccio qui?” potrebbe trovare nuove risposte, più soddisfacenti della vita da eterni vitelloni felliniani che sembrava il nostro destino.

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