Contrordine compagniLa democrazia non è più in pericolo, Bonafede è diventato garantista e il Pd è contento così

Dopo avere chiesto correttivi al taglio dei parlamentari e alla riforma della prescrizione, i democratici hanno deciso che Conte val bene anche qualche piccolo rischio autoritario

LaPresse / Roberto Monaldo

La sintesi più efficace delle trattative in corso tra maggioranza, responsabili sempre meno volenterosi e costruttori sempre meno costruttivi, viene da un servizio del Tg3, andato in onda attorno alle 14.30 di ieri: «La nuova mano tesa dovrebbe arrivare da Bonafede, al lavoro in queste ore su una relazione che, come ha sollecitato il Pd, dovrebbe essere garantista, poco divisiva, proiettata sul futuro più che sulle guerre del passato, nodo prescrizione in testa». E già sull’immagine di un Alfonso Bonafede garantista si potrebbero scrivere libri, ma è ancora più significativo il fatto che appena finito il telegiornale, sullo stesso canale, il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ospite di Lucia Annunziata a “Mezz’ora in più”, abbia tenuto a precisare che per il Movimento 5 stelle l’abolizione della prescrizione (parole sue, che per la precisione sono state: «Noi da gennaio abbiamo abolito la prescrizione») è proprio una medaglia, una cosa di cui andare orgogliosi, e dunque non si tocca. In pratica, almeno per il pubblico di Raitre, oltre che per il Pd, la svolta garantista di Bonafede è durata lo spazio di un intervallo pubblicitario.

Ci sarebbe da dire poi del fatto che a chiedere di modificare le norme sulla prescrizione, in teoria, era stato lo stesso Partito democratico, con parole gravi e solenni che chiamavano in causa i principi fondamentali dello Stato di diritto. Ma a essere onesti era comunque niente rispetto a quello che avevano detto, Goffredo Bettini in testa, circa i pericoli per la stessa democrazia che avrebbe comportato un taglio dei parlamentari non accompagnato da una diversa legge elettorale (proporzionale) e da altri correttivi. Considerazioni che non impediscono oggi al Pd di ripetere che senza Giuseppe Conte non resta che la strada del voto anticipato, ovviamente con questa legge elettorale. In altre parole, l’abbraccio con Conte val bene anche qualche piccolo rischio autoritario.

È difficile restare seri nel commentare simili giravolte, tanto più se consideriamo che la prima e ricorrente giustificazione di tutto quello che è stato fatto fin qui – l’alleanza di governo e il cedimento a ogni e qualsiasi capriccio dei cinquestelle sul terreno politico e programmatico – era proprio la superiore esigenza di non consegnare i «pieni poteri» a Matteo Salvini. Con questo ritornello si è giustificato ogni atto e ogni omissione, compreso l’orrendo sfregio costituzionale al numero dei seggi (e di conseguenza all’equilibrio dei poteri, in assenza dei correttivi suddetti). E tutta questa ridicola giostra si concluderebbe quindi riconsegnandoglieli – i famosi pieni poteri – di molto aumentati, privi persino di quei pochi contrappesi che nel 2019 erano ancora rimasti. Complimenti vivissimi.

In tempi di celebrazioni per i cento anni del Pci, mi sento però in dovere di prevenire la critica – che pure riconosco legittima – secondo cui una simile disinvoltura, una tale indifferenza per la sorte delle istituzioni, sarebbe la naturale eredità di quella storia. Non è così. E lo ha dimostrato con parole inequivocabili lo stesso Nicola Zingaretti, nella riflessione che ha pubblicato in occasione del centenario. «Non avevamo in testa – ha scritto a proposito di sé e della sua generazione di giovani comunisti – le vicende sovietiche, piuttosto c’eravamo formati nel Movimento per la Pace e raccoglievamo le firme contro i carri armati sovietici in Afghanistan. Né tanto meno libri di Marx, di Lenin o persino di Togliatti. Non avevamo in testa particolari ideologie o miti da consacrare. Piuttosto sentivamo quella comunità di giovani comunisti, dentro al Pci, come il canale migliore per esprimere le nostre inquietudini, gli aneliti dell’anima, le disordinate spinte adolescenziali, già chiare nelle loro fondamentali discriminanti. Quella comunità ordinava il nostro magma interiore (…)».

Inquietudini, aneliti dell’anima, disordinate spinte adolescenziali. Davvero tutto questo ha ben poco a che fare con Karl Marx e Palmiro Togliatti. In compenso, non trovo parole migliori per spiegare l’attuale situazione della sinistra italiana e del Partito democratico.

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