«Se pensano di farci paura con la polizia, di intimidirci con le retate in casa, non hanno ancora capito di che forgia siamo fatti noi popolo tunisino». Leila al Habi ha vent’anni e nonostante i suoi genitori all’inizio fossero contrari, sta partecipando quasi ogni giorno alle manifestazioni di protesta in Tunisia.
Martedì 26 gennaio, mentre era in corso la mozione di fiducia del Governo, Leila era in strada nella zona del Parlamento insieme ad altre centinaia di persone, per chiedere diritti, lavoro, uguaglianza. «Sono riuscita ad allontanarmi nel caos generale – racconta ancora impaurita – ma molti ragazzi sono stati fermati e arrestati dalla polizia. C’è stato un gran fuggi fuggi, molti urlavano e so che qualcuno è rimasto ferito, perché ancora una volta la polizia ha usate la forza brutale».
Dal 14 di gennaio, in molte città della Tunisia migliaia di persone hanno iniziato a protestare contro la grave crisi economica, contro le disparità sociali e soprattutto contro la politica del Governo, ritenuto corrotto e incapace di gestire i veri problemi del Paese.
Sono passati dieci anni dalla così detta rivoluzione dei Gelsomini, scoppiata dopo che Mohamed Bouazizi, il giovane ambulante di Sidi Bouzid decise di darsi fuoco per protestare contro l’ennesimo sopruso della polizia, eppure le cose sono cambiate poco da allora. Da quel 2011 di rivolte, in Tunisia si sono succeduti sette governi diversi, nessuno dei quali è riuscito a ripianare le fratture della società. Oggi, la disoccupazione giovanile è arrivata al 36,6% e l’immigrazione clandestina ha superato il 40%.
In strada si riversano adolescenti che dieci anni fa erano bambini e che sono cresciuti nel mito della rivolta del popolo che può imprimere una svolta. «Noi siamo arrabbiati – dice Amed Ben Mohamed, diciotto anni – perché siamo una generazione che non ha possibilità: non c’è lavoro, si fa fatica a studiare, i nostri quartieri sono sempre più malandati e intanto i nostri governanti pensano solo a gestire affari internazionali».
«Questa volta non ci fermeremo – urlano in gruppo tre ragazze di sedici e diciassette anni, sono insieme in video chat – e anche se abbiamo paura non ci possono arrestare tutti: ecco perché protestiamo di notte. Sia per infrangere il coprifuoco sia per limitare la nostra visibilità».
I giovani promettono che le proteste continueranno ma l’instabilità della Tunisia, potrebbe portare a un mutamento degli equilibri nell’intera zona nordafricana e nel Mediterraneo.
Il Primo Ministro Hichem Mechichi ha proposto un nuovo gabinetto, ma il Presidente Kais Saied ha respinto la proposta definendola incostituzionale e dunque per ora è stallo politico. Il pericolo, però, è che i Paesi dell’area possano sfruttare il vuoto di potere e contribuire ai disordini, soffiando sul fuoco del malcontento. L’obiettivo potrebbe essere capovolgere gli assetti di potere e approfittarne. La Turchia, per esempio, che con il partito islamista Ennahda ha molto feeling, ha iniziato a corteggiare la Tunisia e a dicembre ha venduto droni e veicoli blindati per un valore di 150 milioni di dollari.
A cogliere l’opportunità della crisi potrebbero essere anche le organizzazioni che vorrebbero senza dubbio riaccendere la miccia del terrorismo che la Tunisia, con fatica, ha gestito in questi anni. Ricordiamo che dalla Tunisia sono partiti migliaia di foreign fighter e che ormai molti di loro sono poi rientrati in patria.
L’altra conseguenza di questa difficile situazione in Tunisia potrebbe coinvolgere anche l’Italia. La fame e le difficoltà dell’ultimo periodo potrebbero far crescere il numero di migranti che scelgono di imbarcarsi illegalmente per raggiungere l’Europa. «Il numero della partenze è cresciuto negli ultimi mesi del 2020 – spiega un’attivista dell’associazione Terre d’asile Tunisie – e purtroppo non escludiamo che da qui alle prossime settimane, anche in concomitanza con il migliorare delle condizioni meteo, possano aumentare ancora le partenze».