Coincidenze Il (nuovo) governo ha una grande occasione per tornare a fare politica estera

Questa settimana gli Stati Uniti hanno preso due decisioni, una sull’Arabia Saudita, a cui hanno sospeso le forniture di armamenti, l’altra sulla Libia, condannando le interferenze di Russia, Turchia ed Emirati. Sono scelte in linea con i nostri interessi, servono (primi) ministri all’altezza di capirlo

Angelo Carconi/LaPresse/POOL

Le coincidenze in politica estera possono esistere, e quando si verificano andrebbero sfruttate. Questa settimana l’amministrazione Biden ha deciso di sospendere temporaneamente la vendita di munizioni all’Arabia Saudita.

Gli Stati Uniti hanno chiarito che si tratta di una decisione di routine, e serve soltanto a riesaminare i contratti, ma il suo valore simbolico è evidente e segnala la discontinuità rispetto all’atteggiamento di Donald Trump, che non ha esercitato alcuna pressione su Riyad dopo l’omicidio di Jamal Khashoggi, e anzi ha intensificato i rapporti con l’Arabia Saudita.

Trump ha tenuto la stessa linea riguardo il coinvolgimento dell’Arabia Saudita nella guerra in Yemen contro i ribelli Houthi sostenuti dall’Iran, e cioè totale solidarietà. Un altro capitolo di grande divergenza con Joe Biden, che ha invece promesso in campagna elettorale di vigilare affinché le armi americane non vengano utilizzate in questo conflitto.

Se a questo aggiungiamo le dichiarazioni di Avril Haines, direttrice dell’intelligence nazionale, che ha annunciato la volontà di fornire al Congresso un dossier desecretato con le informazioni relative all’omicidio di Khashoggi, appare chiaro che la posizione americana è netta.

Ieri il governo italiano ha annunciato di avere firmato l’atto amministrativo con cui sospende l’autorizzazione a vendere «bombe d’aereo e missili» (quindi non tutti gli armamenti) all’Arabia Saudita. 

Era un atto dovuto, nel senso che il governo era impegnato da una prima risoluzione approvata dalla maggioranza nel giugno 2019 che sospendeva la consegna di questo tipo di armi, e da una nuova risoluzione del 17 dicembre 2020 in cui la stessa maggioranza chiedeva di fare un passo ulteriore, e cioè di revocare le licenze.

La risoluzione impegnava il governo a decidere entro il 31 gennaio, e la riunione al ministero degli Esteri è avvenuta una settimana fa, quindi prima della comunicazione americana e prima della telefonata, avvenuta il 28 gennaio, tra Luigi Di Maio e il segretario di Stato Antony Blinken.

Le due scelte sono state rese pubbliche a due giorni di distanza, quella americana mercoledì, quella italiana venerdì. Il sottosegretario Di Stefano evoca appunto «una piacevole coincidenza», ed esclude a Linkiesta un coordinamento tra il governo italiano e l’amministrazione di Joe Biden.

Ora, sarebbe il caso di rendere questa «piacevole coincidenza» qualcosa di più. Vendere o meno armi a potenze straniere non è soltanto una scelta morale, è una decisione di politica estera. Può essere utilizzata per esercitare pressione sui partner, può aiutare a definire l’immagine internazionale del paese, può far parte di un negoziato internazionale.

In questo caso la scelta si inserisce all’interno di una situazione più ampia, e cioè il cambio di amministrazione americana. 

La risoluzione del 17 dicembre 2020 avviene poche settimane dopo un incontro informale tra la deputata del Partito democratico Lia Quartapelle (prima firmataria della risoluzione) e Ben Rhodes, ex vice consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Obama e uomo molto vicino al team di Joe Biden. 

In quell’occasione Rhodes confermò alla controparte italiana la posizione della futura amministrazione, che avrebbe rivisto, come poi accaduto questo mercoledì, gli accordi sulla vendita di armi a Riyad.

C’è quindi una convergenza, per quanto diverse fonti diplomatiche abbiano confermato a Linkiesta che il governo italiano non ha avuto alcun contatto con l’équipe di Biden su questo dossier. 

A questa coincidenza se ne aggiunge un’altra. Ieri l’ambasciatore americano alle Nazioni Unite Richard Mills, durante una riunione del Consiglio di sicurezza sulla Libia, è stato molto chiaro, e ha chiesto a «tutti gli stranieri, inclusi Russia, Turchia ed Emirati Arabi Uniti, di rispettare la sovranità libica e di cessare immediatamente ogni intervento militare nel Paese» e di rispettare l’accordo siglato il 23 ottobre 2020 che imponeva il ritiro di tutti i soldati di potenze estere nel paese.

È una posizione che ricalca quella italiana, e che mostra un’evidente volontà di tornare a occuparsi del dossier, che per quanto non prioritario per gli Stati Uniti, resta comunque fonte di preoccupazione per la crescente egemonia turca e russa.

In un’intervista dell’aprile 2019, Paolo Gentiloni, raccontando la strategia italiana in Libia durante il suo mandato da ministro degli Esteri, individuava nell’impegno americano il grande successo diplomatico italiano ottenuto nel 2016 con l’invio dell’ambasciatore Giuseppe Perrone a Tripoli e il trasferimento del presidente del Consiglio libico Fayez al Serraj da Tunisi, dov’era in esilio, alla capitale libica.

 «La strada in Libia diventa seria e percorribile nell’autunno 2015 per un fatto molto semplice. Dopo alcuni anni di ferma rinuncia del coinvolgimento in Libia, gli americani decidono di tornare a farsi coinvolgere […] e John Kerry mi fa sapere di sentirsi più libero di poter dare una mano. Grazie all’iniziativa congiunta di Italia e Stati Uniti, un’idea molto iniziale e molto vaga diventa la base di un possibile accordo diplomatico, che poi si concretizza con gli accordi di Skhirat in Marocco e con il riconoscimento internazionale del governo legittimo».

Le analogie con il 2015 sono molte e andrebbero sfruttate: c’è un presidente che sta comunicando in tutti i modi agli alleati la sua volontà di ritornare a impegnarsi per il multilateralismo, e allo stesso tempo chiede ai partner di essere più attivi e propositivi. 

Finora il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio non sono stati capaci di delineare una chiara strategia italiana nel Mediterraneo, né hanno mostrato interesse a farlo. 

Questa crisi di governo potrebbe essere un’occasione per inserirsi in un contesto internazionale favorevole ai nostri interessi nazionali.  Un fatto che andrebbe considerato nella formazione del nuovo esecutivo.

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