Anche i maiali hanno una faccia, e può essere espressiva. Per questa ragione sono sempre di più gli allevatori che, in Cina (il più grande esportatore di carne di maiale del mondo) hanno deciso di fare ricorso a tecnologie sempre più sofisticate per seguire i propri animali. Il riconoscimento facciale, appunto, è uno di questi, insieme a una serie di altri strumenti (il rilevatore della temperatura e del battito cardiaco, il software di riconoscimento vocale per misurare la tosse) aiuta a comprendere meglio come sta. Indica se è a disagio, se è malato, se sta bene o se ci sono problemi.
Il FRT (Facial Recognition Technology) viene impiegato dal 2018 nei maggiori allevamenti del Guagxi, con risultati considerati soddisfacenti. Dimezza i tempi per l’identificazione e il controllo, aiuta a nutrire gli animali e, in ultima analisi, contribuisce al loro benessere generale. È in grado di individuare malattie in modo rapido, aiutando a isolare il maiale colpito per evitare possibili contagi (l’alternativa, in casi simili, è la soppressione di un alto numero di esemplari) e soprattutto diminuisce i costi.
I software adottati sono stati sviluppati da una serie di startup che, nel giro di pochi anni, stanno rivoluzionando il processo produttivo di tutto il settore. La Cina ha risposto alle epidemie suine degli ultimi anni con una strategia precisa: ridurre il numero dei produttori ma rendendoli più grandi e, soprattutto, più avanzati dal punto di vista tecnologico.
Sono nuove fattorie che sembrano succursali della Silicon Valley: la somministrazione del cibo è automatica, può essere regolata attraverso una app (per calibrare le razioni) e per questo i controlli procedono fin dalla nascita.
Ogni animale dell’allevamento viene studiato nella sua crescita, si accumulano dati sui giusti nutrimenti da impiegare a seconda dell’età, riuscendo perfino a rendere la carne più sana e buona.
Gli allevatori risparmiano: secondo alcune ricerche del Guardian, arrivano addirittura a tagliare il 50% delle spese. C’è chi, come la JingQiShen Organic Agriculture progetta di installare questa tecnologia nelle sue 200 fattorie, fino a coprire un totale di 200mila esemplari all’anno, fino ad arrivare a quota tre milioni entro il 2023. Una rivoluzione.
Applicare queste tecnologie, sostengono alcuni esperti, renderebbe migliori anche le vite dei maiali. Oltre a eliminare le etichette di ferro applicate sulle orecchie, si passerebbe a un approccio alla salute preventivo, cioè migliorando il cibo ed eliminando le possibilità di ammalarsi, anziché quello tradizionale, cioè reattivo, dove si interviene solo quando si intravedono i sintomi di un disturbo.
Uno dei problemi però è che l’introduzione dei nuovi mezzi tecnologici andrà ad allargare il divario tra i produttori. Pochi potranno approfittarne, integrandoli nel loro ciclo di produzione.
La maggior parte continuerà a mantenere i sistemi di allevamento attuali, giudicati meno costosi (monitorare i musi degli animali costa una media di 7 dollari a maiale, mentre l’etichettatura si ferma a pochi centesimi). Per non parlare di tutta l’infrastruttura informatica, il cloud per i dati e la manutenzione.
Il risultato sarà una maggiore concentrazione della produzione (e della ricchezza) nelle mani di pochi grandi protagonisti. Una tendenza che, del resto, prosegue da almeno 40 anni: nel 1980 l’80% della carne di maiale proveniva da piccoli allevamenti locali. Ora è il 20%. E con ogni probabilità sarà sempre di meno.