Se fossi un repubblicano – uno americano, no un discepolo di La Malfa – io da oggi avrei un solo obiettivo: una riforma costituzionale che riscriva l’articolo 2. No, non quello della libertà d’espressione (sebbene i social abbiano reso vieppiù evidente che il problema della libertà d’espressione è che ce n’è troppa). Neppure quello del diritto a girare armati (sebbene sia una pretesa da bifolchi della quale prima o poi dovranno liberarsi).
L’articolo due è quello nel quale si dice che solo un cittadino nato negli Stati Uniti può diventare presidente degli Stati Uniti. Per metterli al riparo da ingerenze straniere, il che detto in questo secolo fa particolarmente ridere – ma non è per senso del ridicolo che, se fossi repubblicano, vorrei brasare quell’articolo costituzionale.
È perché, nel 2024, possa essere candidato alla presidenza un repubblicano sensato, intelligente, con capacità politiche e anche un certo qual talento per la retorica. Un candidato nato in Austria.
Se eravate vivi negli anni Ottanta, quando Schwarzenegger era la macchina sterminatutto di Terminator, vi farà un po’ impressione pensarlo, adesso, come la più rosea speranza d’una destra presentabile e civile.
Sì, in mezzo ci sono stati due mandati da governatore della California, e una Kennedy per moglie (come tutti i borghesi d’una volta, Arnold ha anche ingravidato la cameriera, cosa che sono fiduciosa l’elettorato del 2024 sarà pronto a dimenticare: credo nell’evoluzione, il moralismo spiccio è un carattere recessivo).
Ma non è perché l’essere stato in gioventù un attore non è un ostacolo (non lo fu per Reagan) che, da repubblicano, punterei tutto su Arnold.
È perché, nel video di ieri che avrete visto ovunque, Arnold ha fatto ciò che nel 1993 fece George – inteso come Bush padre, non come Clooney.
La storia è nota. Il giovane Bill Clinton, democratico, sconfigge alle elezioni del 1992 George Bush, repubblicano di ventidue anni più vecchio di lui, e presidente per un solo mandato. Che, prima che arrivasse Donald Trump a ristabilire i parametri della dignità, era la massima umiliazione per un presidente: non sei piaciuto all’elettorato abbastanza da tenerti lì otto anni, ti hanno preso in prova e dopo quattro anni ti restituiscono.
George Bush però non era Donald Trump. Cioè: era un politico di destra, non un ragazzino isterico. Quindi il 20 gennaio del 1993, il giorno del suo insediamento, Bill Clinton entra nel suo nuovo ufficio e ci trova una lettera. È del suo predecessore. Parla dell’emozione di entrare in quella stanza per la prima volta, e poi dice: «Quando leggerai questo biglietto, sarai il nostro presidente. Il tuo successo è ora il successo del nostro paese. Tifo per te».
È una cosa che né io né voi sapremmo dire, neanche ipocritamente. Penseremmo: mi hai sconfitto, fanculo tu e la tua presidenza. E infatti né io né voi di mestiere facciamo gli statisti. Neanche Donald Trump, parrebbe, che infatti ha messo il muso come faremmo voi, io, e tutti i tredicenni capricciosi del mondo, e ha detto che non andrà alla cerimonia d’insediamento.
Il repubblicano Arnold, invece, ha registrato quel video in cui dice che lui è austriaco, che sa fin da piccolo cos’è stata la notte dei cristalli e che la considera un buon termine di paragone per quel che è successo a Capitol Hill; che la democrazia, come la spada di Conan il barbaro, più la maltratti più si rafforza (l’ha detto accarezzando l’oggetto di scena di quando Conan era lui: ve l’avevo detto che aveva un certo qual talento per la comunicazione); ha dato dei senza coglioni ai repubblicani che non hanno fermato Trump in tempo, dicendo che non hanno capito cosa intendesse Teddy Roosevelt (presidente repubblicano) quando spiegava che il patriottismo significa stare dalla parte del paese, mica del presidente; e, alla fine, ha fatto quel che Bush fece per Clinton, e che nessuna persona razionale si aspetta faccia Trump per Biden.
Ha detto che, di qualunque partito fosse chi lo guardava, lui gli chiedeva di unirsi a lui nell’augurare a Biden – il presidente eletto, il presidente che viene da quell’altro partito – «Grandi successi come presidente: la sua riuscita è la riuscita del nostro paese. Siamo con lei oggi, domani, sempre, in difesa della nostra democrazia da coloro che la minacciano».
Certo, non è una lettera sulla scrivania dello studio ovale, ma solo per quel dettaglio che l’articolo 2 è ancora lì, e Arnold non è ancora un potenziale presidente. Ma è così evidente che è il miglior candidato possibile che spero qualcuno stia già lavorando a sanare l’impedimento.
Nel video ha, dietro di sé, un poster del sé stesso giovane culturista, ma seminascosto dalle bandiere degli Stati Uniti e della California. Non ha dimenticato da dove viene, ma lo tiene sotto traccia per basso profilo e per non distrarci. È evidentemente la stessa ragione per cui non ha citato quel personaggio che dava del Terminator una descrizione che ora sarebbe perfetta per Trump: «Non ci si può ragionare, non ci si può trattare. Non conosce pietà, rimorso, paura, e davanti a nulla si fermerà». Lo stesso personaggio che spiegava che nel futuro ci sarebbe stata una guerra nucleare, e non si sarebbe saputo chi l’avesse cominciata, ma dipendeva dal fatto che ci si era fidati dei computer, che fossero connessi a tutto, che potessero gestire tutto, e poi quelli avevano cominciato a vedere tutti come nemici. Mancavano più di vent’anni ai social. Era il 1984. L’anno di Terminator, mica solo di Orwell.