Un popolo di poeti, navigatori e … panificatori seriali. Il conforto durante il lockdown veniva dalla cucina di casa, con gli impasti a mano protagonisti delle nostre giornate recluse. Ma anche con tanto cibo carezzevole a fare da surrogato ai mancati incontri.
Lo ha confermato Nielsen, dopo la prima chiusura totale: l’impennata del comfort food rende evidente quanto le coccole del palato sono servite a farci sopravvivere alla tristezza. Creme spalmabili dolci (+63,4%), tavolette di cioccolato (+21,7%), miele (+51,6%), patatine (+16,9%), vaschette di gelato (+22,5%), olive (+15,3%), pop-corn (+70%).
Ci siamo adeguati alla situazione non solo panificando, ma anche concedendoci qualche sfizio che normalmente avremmo evitato, consumando quotidianamente quei cibi di solito relegati al week end o ai momenti di distensione.
E non ci siamo limitati anche sul fronte etilico: i trend positivi si sono fatti sentire in maniera decisa anche su vino (+19,1%) e birre (+18,5%).
L’apertura estiva non ci ha fatto perdere le abitudini legate al cibo del conforto, che abbiamo iniziato a cercare anche fuori dalle mura domestiche. E i ristoranti si sono adeguati: dal celebre Noma di Copenhagen che ha riaperto proponendo un godurioso hamburger: «Che tempi folli e incerti. Copenaghen sta per riaprire i suoi ristoranti. E anche Noma riaprirà. Tuttavia, prima di riaprire il ristorante come prima, abbiamo deciso di trasformarlo in un bar senza prenotazione, dove offriremo solo vino e hamburger. Nella prima fase della riapertura sentiamo il bisogno di aprirci a tutti. Dobbiamo guarire, quindi beviamo un bicchiere e gustiamo un hamburger, siete tutti invitati».
E anche dopo l’estate non abbiamo modificato quelle abitudini ormai consolidate: è l’effetto isteresi quello che meglio potrebbe spiegare ciò che sta succedendo nelle cucine degli italiani. Il fenomeno fisico per cui un corpo elastico deformato sotto l’azione di una forza, mantiene tale deformazione per un certo periodo di tempo anche dopo che la forza è cessata.
È solo una metafora, ma l’isteresi potrebbe davvero spiegare la rinnovata passione per i fornelli degli italiani, che non abbandonano le buone nuove abitudini acquisite in lockdown ma le mantengono, desiderosi di farne uno stile di vita.
GfK ha presentato i dati più recenti su come cambia il consumatore post Covid: innanzitutto ponendo una grande attenzione all’origine nazionale dei prodotti e dando una decisa centralità alla cucina. Sedici milioni di italiani dedicano più tempo a cucinare, e il 33% degli intervistati vorrebbe uno spazio più grande dove farlo. I carrelli della spesa restano più grandi dopo il primo lokdown e anche la frequenza degli acquisti è cresciuta. I nuovi bisogni delle famiglie fanno emergere scelte d’acquisto diversificate, che danno spazio a acquisti prima mai fatti. Creatività e cucina in casa si dimostrano non solo diversivi da lockdown, ma abitudini che si stanno consolidando ai fornelli e nei piatti. Si comprano cibi legati al benessere: più di un italiano su due fa qualcosa per stare bene, e inizia proprio dal prendersi cura di sè attraverso il cibo. L’altra faccia della medaglia, dunque: un confort food per il fisico, contrapposto agli sgarri per l’anima.
Ipotizzare quindi che anche il 2021 sarà un anno dai forti tratti confortanti non è un’ipotesi raminga. E che il conforto passi dalla Provincia, nemmeno.
I bar milanesi, i ristoranti, i luoghi di aggregazione della pausa pranzo desertificati dal lavoro domestico stanno diventando un segno della Milano che non è più centro nevralgico, ma città che senza turisti e senza pendolari ha colto tutta la sua desolazione. Milan resta un gran Milan, ma la sua energia emotiva ed economica esiste se esistono le persone che in città lavorano.
Quelli che, se stanno nelle loro città e paesi di provincia, che li hanno accolti con affitti più bassi, vita meno concitata, stile meno glamour ma più orientato al benessere semplice e autentico, le fanno magicamente rivivere. Perché per ogni bar del centro di Milano che chiude o fatica, c’è un bar di periferia o un ristorante di provincia che si riprendono spazi e persone, che ci provano, e che hanno come conseguenza la rinascita di interi paesi e intere città. Non più semplici dormitori, non più paesi per anziani in pensione: ma nuovi luoghi conviviali e dinamici.
E non è più solo comfort food, ma anche comfort kitchen: perché la parabola degli chef li ha fatti passare da delinquenti a santi, da star a amici nel giro di un lockdown.
Il mood era già chiaro da qualche anno, ma la pandemia ha accelerato il processo e il futuro è segnato.
Lo sguardo disincantato e reale, senza un velo e senza remore, di Anthony Bourdin rimandava una fotografia impietosa del mondo delle cucine, con chef ubriaconi, drogati, violenti, disonesti: sembrava che in quel settore non si potesse lavorare senza essere dei delinquenti a vario titolo.
Sui suoi libri abbiamo scoperto che il sessismo era all’ordine del giorno, che vigeva un regime militare e dove l’ultimo arrivato subiva un nonnismo che nemmeno nella peggiore caserma si sarebbe potuto perpetrare. Queste prassi non erano solo accettate, erano ‘normali’: perché per diversi decenni si è pensato che per reggere un lavoro così stressante, a questi ritmi forsennati, a questi orari di lavoro folli e a queste richieste sempre più pressanti di clienti e critici non si potesse far altro che quello. La ricerca della perfezione quotidiana e ripetuta era la scusa dietro la quale trincerarsi per nascondere le peggiori nefandezze.
Le cose sono molto cambiate, da allora, e sempre di più la tendenza è verso un nuovo modo di raccontare la cucina. Oggi il mondo della gastronomia è il regno della squadra, dell’etica e della sostenibilità, del rispetto. O almeno questa è la poetica che amiamo condidivere e sulla quale i nuovi chef di grido si confrontano quotidianamente, alla rincorsa di chi è più green, più sostenibile e più attento al benessere del personale.
Che sia davvero così, non lo sappiamo per certo. Di sicuro è l’atteggiamento che va più di moda, e che sta spostando il focus sempre più dal piatto allo storytelling positivo.
Questi mesi reclusi ci hanno portato a pensare i protagonisti della cucina sempre meno come chef star e sempre più come cuochi amici: quei due mesi di dirette dalle cucine di casa, con ingredienti comuni e strumenti domestici li hanno ri-umanizzati ma soprattutto hanno fatto loro comprendere quanto l’ossessione per la cucina spettacolo, per la creatività a tutti i costi, per il gusto sacrificato alla sorpresa fossero pratiche ormai desuete.
La dimostrazione è stata evidente alla riapertura dei grandi in versione rivisitata, ma questa volta con uno sguardo all’indietro. Moltissimi cuochi stellati hanno deciso di tornare a proporre una cucina più immediata, tradizionale, non cerebrale. Perché di questo abbiamo bisogno, oggi che tutte le certezze si sono dissolte. L’unica cosa che non è cambiata, forse, è proprio la voglia di socialità, il desiderio innato di stare con gli altri, e di goderci – insieme – un buon pasto. Siamo disposti a rischiare, per averlo: possiamo sopportare mascherine, distanziamento, misurazione della temperatura. Ma abbiamo bisogno di conforto, abbiamo bisogno di non pensare, di non rischiare, di non sperimentare. Ma di avere una certezza almeno in ciò che mangiamo.
Perché, per confortaci, il cibo deve essere comprensibile, goloso, rassicurante. Per la creatività a tutti i costi aspettiamo tempi migliori. Perché ci piace tanto parlare di locali gourmet, ma poi, nella maggior parte delle occasioni, andiamo in trattoria per sentirci bene davvero.
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