L’8 febbraio scorso a Bessemer, in Alabama, i 5.800 lavoratori del magazzino Amazon hanno iniziato a esprimere il proprio voto circa la possibilità di formare un sindacato. Se al termine della consultazione, che avverrà il 29 marzo prossimo, l’esito sarà positivo, allora assisteremo alla nascita del primo sindacato Usa nel colosso del commercio online.
Molti commentatori internazionali ci mettono a parte della dura opposizione al sindacato che l’azienda ha intrapreso con pretesti di vario genere tra cui la richiesta di fare esprimere ai lavoratori il proprio voto in presenza, al seggio, nonostante una saggia gestione delle misure anti-Covid lo sconsigliasse, e tuttavia l’agenzia governativa che si occupa del diritto del lavoro statunitense ha decretato che invece è possibile il voto per posta.
Le richieste dei lavoratori di Bessemer sono elementari e vanno dall’aumento salariale all’equità razziale, il personale è prevalentemente formato da neri, a una maggiore sicurezza, dato che, scrive il Washington Post, ultimamente il 40% è risultato positivo al Covid-19 e di fatto complessivamente sono più di 19.000 i dipendenti di Amazon che hanno contratto la malattia.
Dunque, a giudicare dalle proteste estese in tutti gli Stati Uniti, il gigante Amazon durante la pandemia non è riuscito a mantenere al sicuro i propri lavoratori, ed è probabile, scrive Jacobin Magazine, che nel prossimo futuro debba affrontare altre sfide inedite come l’attuale crescente attivismo sindacale o le azioni antitrust sia negli Usa che nell’Unione europea, e tuttavia Bezos, che ha annunciato le sue dimissioni dal ruolo di amministratore delegato dopo 27 anni in quel ruolo, proprio nell’anno della pandemia ha visto il suo patrimonio complessivo sfiorare i 200 miliardi di dollari. Avendo guadagnato, secondo le stime, 90 miliardi di dollari nel pieno di una crisi sanitaria globale che porterà solo negli Usa più di 50 milioni di persone alla fame.
Dall’altro canto l’era della pandemia ha esercitato e continua a esercitare un certo tipo di forze sull’esperienza di consumo e di acquisto, consolidando alcuni comportamenti ed evolvendone altri.
Se prendiamo ad esempio il comparto del commercio di prossimità, i risultati di una recente indagine condotta a livello globale da Ipsos ci raccontano come i consumatori di tutto il mondo riferiscano di fare più spesso acquisti online rispetto al periodo pre-pandemico.
Anche se gli acquisti effettuati a livello locale, da agricoltori, produttori, imprese e ristoranti locali, risultano essere sostanzialmente invariati rispetto a prima della pandemia, il 43% degli intervistati ha affermato di fare acquisti online con maggiore frequenza.
È il Nord America a guidare l’aumento globale della frequenza dello shopping online, detenendo la metà di quanti dichiarano di avere incrementato i propri acquisti online. L’America Latina è la seconda area geografica con la percentuale più alta di consumatori che segnalano un aumento dello shopping online (46%), ma anche la percentuale più alta di coloro che segnalano una diminuzione (25%). L’Italia si colloca in una posizione molto vicina alla media globale.
Tuttavia, quel che ritengo più rilevante in questo studio, è il dato che evidenzia il processo di frammentazione sociale in atto di cui si parla approfonditamente in molti altri illustri studi, ma del quale purtroppo rischiamo di perdere la consapevolezza, finendo con il contribuire così ad accentuare sia il divario sia la disuguaglianza tra le persone.
Sono infatti i consumatori con un reddito più elevato (49%) coloro che dichiarano di aver incrementato lo shopping online dall’inizio della pandemia. L’accesso e la disponibilità di metodi di pagamento per gli acquisti online potrebbero aver contribuito a questa disparità.
Il 2020 ha rappresentato dunque in molti Paesi il punto di non ritorno nelle abitudini dei consumatori dove il fattore centrale è il progressivo intensificarsi dell’uso del digitale.
Ma il viaggio verso quella nuova normalità di cui troppo spesso sentiamo il bisogno, sarà orientato dall’estensione ad altre attività, comparti e brand, di quell’etica implacabile che contraddistingue il DNA di imprese colossali quali Amazon, oppure questa verrà messa profondamente in discussione proprio grazie all’interazione che viene sempre più condotta on line e che rende conseguentemente decisivi elementi valoriali quali la personalizzazione, il coinvolgimento, l’empatia, la fiducia?
Lascio trarre le conclusioni ad alcuni dati certificati dall’ultimo studio di Salesforce: in Italia il 92% dei consumatori ritiene che il comportamento di un’azienda durante una crisi rispecchia la sua affidabilità.
E oggi, se il 66% degli utenti si aspetta che le aziende interagiscano in modo empatico, solo il 37% ha la percezione che lo stiano facendo. Il margine di miglioramento è altissimo e i tempi sono molto stretti.