Rivoluzione a fuoco lentoLa repressione di Lukashenko colpisce i giornalisti, ma la protesta non si ferma

Il dittatore ha messo nel mirino la stampa indipendente e le associazioni non governative. Una completa violazione dei diritti umani, denuncia l’Unione europea. Gli oppositori continuano a manifestare, ma in gruppi sempre più piccoli, mentre i fuoriusciti cercano il sostegno internazionale

LaPresse

È una rivoluzione a fuoco lento quella che l’opposizione democratica al regime di Aleksandr Lukashenko sta mettendo in atto dallo scorso agosto in Bielorussia. Da una parte migliaia di persone che contestano l’esito delle ultime elezioni e chiedono le dimissioni del presidente; dall’altra una feroce repressione, che comprende arresti arbitrari e violenze da parte della polizia. Di recente, il governo bielorusso ha intensificato la pressione su giornalisti e attivisti, vittime di un raid da parte delle forze dell’ordine in tutto il Paese.

La mattina del 16 febbraio un’azione coordinata da parte delle forze di polizia bielorusse ha colpito oltre 40 fra giornalisti e membri di associazioni della società civile. Uno dei primi a denunciare l’operazione è stato Barys Haretski, segretario dell’Associazione bielorussa dei Giornalisti (BAJ), che sui suoi social ha scritto in tempo reale «stanno bussando alla mia porta». Gli agenti hanno perquisito la sua abitazione a Minsk, confiscando computer, telefoni cellulari e il contante che hanno trovato.

La stessa sorte è toccata a decine di colleghi e ad attivisti, non solo nella capitale. Una componente della Ong Viasna, che si occupa della difesa dei diritti umani nel Paese, ha riferito a un programma radiofonico che i sequestri della polizia non hanno risparmiato neppure le monetine del suo salvadanaio. Il denaro è stato requisito con la motivazione che si trattasse di presunti fondi destinati a organizzare proteste di massa.

L’intero raid è stato infatti motivato con un’indagine criminale condotta in linea con un articolo del Codice penale bielorusso che regola la partecipazione in attività che violano l’ordine pubblico. «Gli inquirenti hanno avviato ricerche su organizzazioni che si dichiaravano promotrici del rispetto dei diritti umani, nell’ambito di indagini preliminari volte ad accertare le circostanze dei finanziamenti di attività di protesta», ha dichiarato il Comitato Investigativo della Bielorussia (ICB), in una nota ripresa dai media internazionali. Il suo presidente, Ivan Danilovich Noskevich, è da novembre 2020 fra i destinatari delle sanzioni da parte dell’UE.

Oltre a Viasna e all’Associazione bielorussa dei giornalisti, sono stati scandagliati gli uffici di altre organizzazioni del Paese, come Belarusian Human Rights House e Belarus Solidarity Foundation. Secondo quanto riporta l’Ong internazionale Human Rights Watch, fra le persone colpite dalle perquisizioni a domicilio c’erano anche molti reporter attivi nel documentare le proteste contro Lukashenko. Molti di loro sono stati poi rilasciati, ma l’operazione ha tutta l’aria di un’azione intimidatoria, visto che né le proteste pacifiche, né l’attività giornalistica sono in contrasto con le leggi nazionali e quindi configurabili come reati. 

Non si sono fatte attendere le reazioni ufficiali da parte dell’Unione Europea. Il portavoce dell’EEAS Peter Stano ha qualificato come “inaccettabile” l’escalation di intimidazioni e attacchi alla società civile, affermando che queste perquisizioni violano le libertà personali e lo Stato di Diritto. Sulla stessa linea la commissaria per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic: «La libertà d’espressione, di associazione e di assemblea dovrebbe essere assicurata, in linea con gli standard internazionali di rispetto dei diritti umani».

Il giorno successivo al raid, si è aggiunto un altro tassello dell’attacco alla stampa: due giornaliste del canale Belsat TV sono state condannate a due anni di carcere proprio per aver organizzato “azioni che violano l’ordine pubblico”. Le due giovani reporter, Katsiaryna Bakhvalava di 27 anni e Daria Chultsova di 23, erano state arrestate lo scorso novembre, sorprese a trasmettere in streaming una manifestazione di massa a Minsk. Anche questa decisione conferma la mano pesante delle autorità bielorusse: secondo l’Associazione dei giornalisti bielorussi 477 arresti ai danni di colleghi sono stati registrati lo scorso anno e diversi dei detenuti sono attualmente sotto processo. Per la leader dell’opposizione Svyatlana Tsikhanouskaya, il messaggio del regime a chi lavora nella comunicazione è chiaro: «O sei dalla nostra parte, o finisci in prigione».

«Fin dall’inizio delle manifestazioni il governo ha limitato la libertà d’informazione», racconta a Linkiesta Claudio Locatelli, giornalista freelance che ha assistito alla primissima ondata di proteste, subito dopo le elezioni, il 9 agosto 2020. Arrestato dalla polizia mentre riprendeva con il cellulare la contestazione al presidente, Locatelli ha trascorso tre giorni in condizioni precarie in una cella di Minsk ed è tuttora in contatto con fonti locali. «In un primo momento venivano ostacolati i freelance, poi da ottobre il governo ha ritirato tutti gli accrediti alla stampa internazionale. In questo modo si vuole evitare che il movimento di opposizione bielorusso trovi risalto a livello internazionale».

La protesta non si ferma
Come segnalano le associazioni per la difesa dei diritti umani, le carceri bielorusse ospitano al momento oltre 250 prigionieri politici. La strategia di Lukashenko per soffocare le proteste ha forse limitato i grandi raduni nelle piazze, ma i cittadini bielorussi continuano a esprimere il proprio malcontento. 

Secondo un’analisi dell’autorevole giornalista Arina Kochemarova, si è ridotta sensibilmente la scala delle manifestazioni, che spesso si svolgono nei cortili dei palazzi. Queste aggregazioni, organizzate soprattutto attraverso Telegram, riescono ad evitare la brutale repressione della polizia, o perché gli agenti ne sono all’oscuro, o perché i manifestanti riescono a disperdersi negli androni al loro arrivo. Al contempo, l’eco mediatico rimane inalterato, perché i video delle proteste vengono subito caricati e diffusi in rete.

Altre volte si vedono per le strade cortei di poche persone che sfidano le intemperie con la bandiera a bande bianco-rosse, simbolo della protesta anti-governativa. Proprio i colori dell’antico stendardo sono quelli preferiti dai manifestanti anche nei loro abiti civili, in una serie di proteste sempre più innovative. 

Il dissenso nelle strade viaggia in parallelo a quello sui canali informatici confidenziali. Telegram è l’opzione preferita dai dissidenti: sull’app di messaggistica criptata è comparso anche la chat BYPOL, un gruppo dove ex agenti dell’intelligence e delle agenzie governative nazionali comunicano gli scheletri nell’armadio del regime. Secondo il portale Meduza, oltre 30 figure degli apparati di Stato hanno aderito al canale e lasciato il Paese, pronti a sostenere l’opposizione a Lukashenko dall’estero.

Fuori dai confini nazionali, il movimento di opposizione all’attuale presidente continua infatti a lavorare per coordinare le proteste e attirare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Le sanzioni economiche imposte dall’UE al presidente bielorusso e a 58 figure a lui vicine, la consegna del Premio Sakharov del Parlamento Europeo all’opposizione democratica e l’appoggio incondizionato dei governi dei Paesi baltici sono piccole battaglie vinte per il fronte anti-Lukashenko. La strada che porta alla destituzione del regime, però, è ancora lunga e irta di ostacoli.

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