Arresti, repressioni brutali, stupri, detenzioni arbitrarie e inedite forme di violenza. A poco più di un mese dall’appuntamento elettorale del 9 agosto, che secondo il Parlamento europeo si è svolto «in violazione di tutti gli standard riconosciuti a livello internazionale» e che ha riconfermato alla presidenza Aleksandr Lukašenko, definito l’ultimo dittatore d’Europa, la Bielorussia del 2020 appare così: come un’intricata quanto complessa questione geopolitica da risolvere.
Perché le proteste che hanno travolto la quotidianità del Paese dopo il sesto insediamento del presidente (che dal 1994 detiene, di fatto, pieni poteri) non hanno infiammato soltanto le piazze bielorusse, ma hanno costretto l’opinione pubblica internazionale (in particolare, quella occidentale) a interrogarsi sulle azioni di “contenimento” di un leader ingombrante che, seppur con uno status particolare, è parte di un’Europa che non può accettare pubblicamente l’esercizio di tanta violenza.
I precedenti
Nonostante le numerose richieste da parte dell’Unione europea di interrompere le azioni repressive nei confronti degli oppositori politici e degli attivisti, Lukašenko ha perseverato nella sua condotta, alzando (e di molto) i livelli di violenza: soffocando il dissenso con tutti i mezzi possibili, ignorando le richieste europee e guardando altrove. Verso la Russia di Vladimir Putin, per esempio. Il 17 settembre, dopo l’incontro con il presidente russo a Sochi, il leader bielorusso dichiarava di voler chiudere i confini con Lituania e Polonia (i due Stati che fanno parte dell’Ue).
Poco prima del suo annuncio, il Parlamento europeo votava per una risoluzione che imponesse delle sanzioni alla Bielorussia. Nella stessa circostanza, il Parlamento europeo comunicava di non riconoscere quel risultato elettorale e chiedeva all’Ue di punire la condotta di Lukašenko. Di tutta risposta, il leader bielorusso, criticando quella decisione, affermava di non avere bisogno dell’approvazione del Parlamento europeo per esercitare il suo potere. Ed è andato avanti.
Niente unanimità, niente sanzioni
Ma per rendere efficaci (ed effettive) le misure, infatti, il Consiglio Affari esteri dell’Ue deve obbligatoriamente raggiungere l’unanimità per procedere. Fatto che, però, non è accaduto. Il 21 settembre, infatti, i ministri degli Esteri dell’Ue (che compongono il collegio) non sono riusciti a sbloccare lo stallo e a imporsi, dopo che Cipro ha posto il veto su una lista di circa 40 funzionari (di cui, comunque, non avrebbe fatto parte Lukašenko), ritenuti responsabili delle irregolarità nelle elezioni del 9 agosto e della repressione contro i manifestanti.
La mancata concordanza è legata alle tensioni che riguardano il Mediterraneo orientale: nonostante le evidenti pressioni internazionali e la volontà di fermare il regime bielorusso, Cipro avrebbe scelto di non dare il proprio assenso ai provvedimenti contro Lukašenko fino a quando anche la Turchia non sarà sanzionata. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Joseph Borrell, nel comunicare il mancato avvio delle misure, ha auspicato che la questione possa essere risolta durante il Consiglio europeo, in programma il 24 e il 25 settembre e ha ribadito il non riconoscimento del leader bielorusso come legittimo presidente. «La nostra reazione a qualsiasi tipo di violazione dei nostri valori e principi fondamentali non può essere à la carte. Deve essere coerente», ha sentenziato il ministro degli Esteri cipriota, Nikos Christodoulides, denunciando (tra le righe) una diversità di trattamento per interessi nazionali.
Strani movimenti militari
Nel frattempo, secondo quanto riportato da Agi, Mosca, dopo aver offerto il suo appoggio alla presidenza di Lukašenko, avrebbe inviato circa mille soldati per la seconda fase dell’esercitazione bilaterale della Confraternita slava (dal 22 al 25 settembre), anche alla luce della situazione politico-militare (come ricordato dal ministero della Difesa bielorusso). Nello stesso momento, anche diversi soldati bielorussi parteciperanno a delle esercitazioni militari su larga scala in Russia, nel distretto meridionale, nel Mar Nero e nel Mar Caspio, con l’obiettivo di rafforzare e coordinare le forze dei diversi Paesi partecipanti.
La repressione non si ferma
Intanto, però, le proteste sono andate avanti, così come il pugno duro del regime che, in queste ore, tramite un tribunale di Minsk, ha negato la scarcerazione di Maria Kolesnikova, leader dell’opposizione, incriminata e presa in custodia (con la forza) in circostanze ancora da chiarire. Soltanto nelle ultime ore, la polizia, fermando le manifestazioni con cannoni ad acqua e gas lacrimogeni, avrebbe arrestato oltre 442 dimostranti. In base a quanto riportato da alcuni attivisti locali per i diritti umani, soltanto nelle strade della capitale, per protesta, si sarebbero presentate circa 100mila persone e, nei giorni scorsi, un gruppo di donne avrebbe risposto alla brutalità delle forze dell’ordine cercando di privarli del loro passamontagna per renderli riconoscibili.
Svetlana Tikhanovskaya, l’oppositrice attualmente in esilio in Lituania, in occasione del suo incontro con i vari ministri degli Esteri a Bruxelles, nei giorni scorsi, si era appellata alle autorità europee affinché non lasciassero soli i civili: «per 26 anni abbiamo vissuto sotto una dittatura e nella paura. Ora il popolo bielorusso si è svegliato e da sette settimane di fila scende in strada a protestare. Le nostre proteste pacifiche sono state contrastate con la violenza. I dimostranti sono stati torturati, molestati e stuprati. Alcuni di loro sono stati uccisi. Non dimenticherò mai le loro voci: tutto questo accade nel 2020, nel mezzo dell’Europa. State dalla parte del popolo bielorusso, abbiamo bisogno del vostro sostegno. Abbiamo fatto molto per gestire questa situazione da soli, ma ora so che abbiamo bisogno di aiuto dall’esterno».
L’attivista, nel ricordare che “la rivoluzione” che sta attraversando il suo Paese non è né di carattere geopolitico, «né pro-russa, né anti-russa, né pro-Ue, né anti-Ue», ha ribadito la volontà degli oppositori di rimanere in piazza fino alla destituzione del leader: «Lukašenko spera che le nostre proteste si spengano piano piano. Noi protesteremo per tutto il tempo necessario: per settimane, per mesi, per anni, se necessario. Non torneremo mai nelle condizioni in cui siamo stati per 26 anni».
La frattura sociale e il rapporto con Putin
Come ricordato da Tikhanovskaya, da quel risultato elettorale così contestato, si è aperta un’imponente frattura sociale, che ha polarizzato il malcontento di tanti anni e ha generato una profonda crisi politica e istituzionale. Che sembrerebbe insanabile. In lotta da circa 50 giorni, i contestatori di Lukašenko si trovano (loro malgrado) ad affrontare un futuro incerto, fatto di disordini interni e un possibile isolamento internazionale (soprattutto occidentale).
Eleonora Tafuro Ambrosetti, ricercatrice preso il Centro Russia, Caucaso e Asia Centrale dell’Ispi, ricorda quanto costi mantenere in vita un regime che ha perso gran parte della sua legittimità, non solo per la (grave) repressione politica, ma anche per la mala gestione del nuovo coronavirus e per lo stallo economico che precedeva la pandemia: «il costo è sia interno, per la frattura con gran parte della popolazione che non potrà essere rimarginata, sia geopolitico, a causa di una sempre più stretta dipendenza dalla Russia, in un momento in cui anche Lukašenko avrebbe voluto allentare il legame con Putin». Che non era affatto scontato perché, come spiegato da Tafuro Ambrosetti, prima dell’ultima tornata elettorale in Bielorussia, le relazioni tra i due leader presentavano più di una criticità.
Bielorussia isolata?
E se da un punto di vista europeo, l’applicazione di sanzioni per fermare la repressione violenta di Lukašenko può portare alle sue dimissioni, il rischio è quello di isolare ancora di più il Paese. «Quando parliamo di isolamento internazionale dobbiamo pensare che non esiste solo l’Occidente. Se Ue e Usa impongono sanzioni non significa che ci troviamo di fronte a un isolamento internazionale. Il mondo è grande e come la Russia ha iniziato a volgersi sempre più verso est, anche la Bielorussia, che aveva già rapporti più stretti con la Cina, continuerà a fare lo stesso, perché Minsk, anche in un contesto di isolamento occidentale, riuscirà a trovare altri possibili alleati (al di là di Mosca)», specifica Tafuro Ambrosetti.
Se l’alleanza tra Lukašenko e Putin dovesse consolidarsi (anche se per caso), per l’Ue si aprirebbe un altro scenario di scontro geopolitico tra Russia e Ue. «Il rapporto con Mosca è una variabile importante nei calcoli dell’Europa. Il rischio, in generale, per la politica estera dell’Ue è di perdere credibilità e di confermarsi come una politica estera macchinosa, inefficace e bloccata dalle singole istanze e dagli interessi specifici di alcuni membri. Ora la posizione russa nei confronti di Minsk è più definita e mentre all’inizio non si sapeva se Putin lo avrebbe aiutato, per ora Lukašenko rimarrà al potere, anche se con enormi problemi e un’instabilità che ne causerà la caduta», conclude la ricercatrice.
Scenari possibili (e torture mai viste)
E se il futuro politico bielorusso sembra essere incerto, non solo per gli interessi dei vari attori coinvolti, la costante è rappresentata da un’opposizione pubblica che non si ferma. Nonostante un livello di repressione del dissenso che, secondo le organizzazioni per i diritti umani, non ha precedenti in Europa. «I numeri sono impressionanti: abbiamo superato ampiamente gli 8mila arresti», spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, che racconta come nelle ultime settimane, l’organizzazione abbia validato “immagini terrificanti” di torture fisiche, carceri trasformati in centri di tortura e maltrattamenti a scopo punitivo.
«È evidente che il movimento di protesta non farà un passo indietro, nonostante le minacce di violenza sessuale o l’approccio omofobo e misogino da parte della polizia, perché si è spinto molto avanti. Ora sta al governo di Minsk scegliere se porre fine a questa repressione di piazza. Se l’esecutivo scegliesse un’altra strada, ci ritroveremmo in una situazione inimmaginabile per un Paese d’Europa», conferma Noury. Il 18 settembre, l’organizzazione non governativa, intervenendo al Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, aveva sollecitato una presa di posizione molto netta di condanna per quanto accaduto nel Paese e il lancio di un’inchiesta indipendente internazionale per individuare i responsabili degli atti violenti nei confronti dei civili.
Come ricordato dal portavoce italiano, Amnesty International e Human Rights Watch avrebbero dichiarato che «nell’analisi e nell’osservazione delle torture raramente ci si è trovati davanti a qualcosa di così brutale». Per Amnesty International, se la Bielorussia venisse isolata dall’occidente lo scenario sarebbe catastrofico, come specificato da Noury: «Se venissero prese una serie di misure che impedissero un monitoraggio della situazione a osservatori del Consiglio d’Europa, alle ambasciate e alle organizzazioni per i diritti umani, il rischio di una repressione fortissima per la popolazione sarebbe ancora maggiore».
La lotta delle donne e il suo effetto catalizzatore
«Sono 26 anni che in Bielorussia esiste una forma d’opposizione a Lukašenko che, però, era inizialmente costituita solo dagli avversari politici, che non riuscivano ad avere grande presa popolare. Era quasi una lotta d’élite tra un satrapo e chi lo contestava. Oggi, però, la situazione è diversa, probabilmente perché all’interno dell’opposizione sono emerse, anche loro malgrado delle figure femminili, che hanno avuto un potere catalizzatore: di catturare, cioè, l’attenzione e le emozioni di buona parte della popolazione», spiega ancora Noury. Nei giorni scorsi, durante una delle manifestazioni, è stata arrestata anche Nina Bahinskaja, un’attivista di 73 anni, trascinata in un furgone con la forza da alcuni uomini in divisa e dal volto coperto.
Noury chiede di mantenere alta l’attenzione e ribadisce la richiesta di Amnesty International, cioè di «scarcerare tutte le persone ancora in stato di detenzione per accuse legate alla partecipazione alle manifestazioni pacifiche e, soprattutto, rilasciare le leader dell’opposizione»: «Non vorrei che ci trovassimo un Egitto in casa. Perché le torture e gli arresti senza processo sono proprio le tecniche che conosciamo bene. Le stiamo condannando al Cairo e sarebbe bene avere una posizione molto rigorosa quando accadono vicino a noi».