«E pensavi che Brexit fosse la parte peggiore?». Politico riassume così la crisi di nervi dell’ultima settimana che si è consumata sull’asse Bruxelles-Dublino-Belfast-Londra. I rapporti tra Regno Unito e Unione Europea, migliorati dall’accordo di libero scambio raggiunto il 24 dicembre 2020, sono tornati tesi. Il 24 gennaio la Commissione ha vietato l’esportazione verso Belfast dei vaccini provenienti dall’Unione Europea, attivando l’articolo 16 del protocollo sull’Irlanda del Nord. Ursula Von der Leyen, la presidente della Commissione, si è assunta la responsabilità del «disguido».
«È come se ci fosse un confine di stato nel mar d’Irlanda. Una merce che va dall’Irlanda verso Belfast rimane nel mercato interno quindi può circolare liberamente. Nel protocollo c’è una clausola di salvaguardia che permette di impedire che una merce entra o esca nell’Unione. Quello che è successo giovedì scorso è stato un pasticcio», spiega a Linkiesta Jacques Ziller, ordinario di diritto dell’Unione Europea all’Università di Pavia. La crisi diplomatica sui vaccini sembra essere superata – la Commissione ha chiesto scusa e ritirato il provvedimento – ma le difficoltà da superare nel divorzio Brexit non si limitano alla crisi sanitaria e alla sfiducia reciproca.
Il 1 gennaio il Regno Unito ha lasciato il mercato unico e l’unione doganale dell’Unione Europea. L’accordo di libero scambio tra Bruxelles e Londra, firmato il 24 dicembre e valido provvisoriamente fino al 28 febbraio 2021, ha evitato hard Brexit. Quello che l’accordo non ha potuto evitare sono alcuni effetti collaterali: l’aumento di imposizioni burocratiche per le aziende e di nuove tariffe come l’Iva aggiuntiva a carico dei consumatori su entrambe le sponde del continente. Le aziende che esportano nel Regno Unito, e viceversa, devono rispettare tutti i criteri nella descrizione commerciale del prodotto per esportare rapidamente e senza blocchi alla dogana.
«Le dogane esistevano già per i Paesi che non facevano parte dell’Unione. Si tratta di burocrazia ma anche di una perdita di tempo. Pesa soprattutto sulle piccole e medie imprese, per una grande impresa non cambia molto», spiega Ziller. «Ad esempio un’impresa di Vigevano che esporta merce verso il Regno Unito e Spagna, oggi scopre di colpo che verso il Regno Unito costa di più e deve verificare anche la composizione della merce». Tra le novità dell’accordo c’è anche l’imposizione di dazi sulle merci che passano dal Regno Unito, ma presentano componenti prodotti altrove: «Prima di Brexit una merce ammessa nel Regno Unito poteva viaggiare liberamente verso l’Unione Europea. Ora bisogna verificare da dove proviene. Una merce cinese dovrà pagare il dazio per entrare nell’Ue e viceversa».
Secondo i dati elaborati da The European Data Journalism Net, nel 2017 gli scambi commerciali tra Regno Unito e Ue sono arrivati a un totale di 423 miliardi di sterline, di cui 164 miliardi solo per le esportazioni britanniche verso i 27 paesi Ue. Le stime degli effetti di Brexit sul Regno Unito parlavano, prima del divorzio effettivo, di una riduzione del Pil britannico tra i 26 e i 55 miliardi di sterline.
Nel 2019 il 43% dei prodotti esportati dal Regno Unito ha raggiunto l’Europa. Brexit ha portato più obblighi amministrativi per le aziende, che oggi si trovano in ritardo e senza possibilità di assicurare le consegne nei tempi previsti. Secondo AlJazeera «il sistema doganale del governo è stato sopraffatto entro poche settimane dalla Brexit e minaccia di innescare ulteriori interruzioni con la ripresa del traffico merci». I documenti di transito per ottenere il lasciapassare delle dogane non sono ancora disponibili per gran parte degli esportatori. I ritardi accumulati hanno portato il 20% delle piccole e medie impreso britanniche a sospendere le esportazioni verso l’Unione Europea, secondo la società di contabilità UHY Hacker Young.
Il ritorno delle dogane ha colpito anche i consumatori. The Guardian e BBC riferiscono di rallentamenti o tasse aggiuntive, come l’Iva al 20% prevista per gli acquisti inferiori a 135 sterline. A questo si aggiungono spese amministrative alla consegna, non previste al momento dell’acquisto. Lo stesso succede nei 27 Stati Membri. Si tratta del processo amministrativo che prevede l’intervento e l’esame della spedizione da parte della dogana. Lo sdoganamento ha costi aggiuntivi, come quelli normalmente applicabili alle spedizioni internazionali. Le esenzioni da maggiorazioni di Iva e spese aggiuntive riguardano «beni già soggetti ad accise», e «regali inviati da privati verso privati» cioè prodotti non commerciali.
Il Regno Unito sta provando a lanciare una strategia commerciale alternativa al mercato unico Europeo. Il governo Johnson ha avviato formalmente il processo di adesione all’accordo di libero scambio Trans-Pacifico (CPTPP) che riunisce 11 Paesi tra America, Oceania e Asia tra cui Australia, Messico e Canada. Si tratta di un accordo voluto anche dagli Stati Uniti ai tempi dell’amministrazione Obama, ma osteggiato da Donald Trump fino al ritiro USA nel 2017. «A un anno dall’uscita dall’Unione Europea stiamo realizzando nuove partnership che porteranno benefici economici enormi per i cittadini britannici», ha dichiarato Boris Johnson.
Nel 2019 il valore del commercio del Regno Unito con il Gruppo CPTPP è stato di 111 miliardi di sterline, in aumento dell’8% rispetto al 2016. Si tratta di un quarto del valore degli scambi realizzati annualmente con l’Unione Europea. «Londra vorrebbe aderire velocemente al trattato per mettere il veto all’ingresso della Cina su questo accordo. Ma alcuni Paesi hanno molto più interesse ad avere un accordo con la Cina rispetto al Regno Unito. C’è molta propaganda dei Brexiters in questo annuncio. La stampa australiana, ad esempio, è molto scettica sulla questione», conclude Ziller.