Chi ha vinto non governerà, chi canta vittoria governerà a fatica. È il verdetto delle elezioni in Catalogna, dove il Partido Socialista conquista la tornata con il 23% dei voti, ma quasi sicuramente siederà fra i banchi dell’opposizione. Il blocco dei partiti indipendentisti, infatti, si è aggiudicato 74 seggi e, con un discreto margine sui 68 necessari per l’investitura, potrà scegliere il prossimo presidente catalano. Ma soprattutto, per la prima volta nella storia della Spagna moderna, ha ottenuto nel suo complesso più del 50% dei voti.
Maggioranza indipendentista
Sarà un fronte come sempre ampio e variegato, tenuto insieme dal secessionismo, pur declinato in diverse strategie. Ci saranno i rappresentanti della borghesia catalana conservatrice e i marxisti bellicosi della Candidatura d’Unitat Popular (CUP); ci saranno gli indipendentisti della prima ora e i separatisti moderati, inclini a un compromesso con lo Stato spagnolo piuttosto che a un confronto a muso duro.
All’interno di questo blocco, che si appresta a governare per i prossimi quattro anni, cambiano però i rapporti di forza interni. Il nuovo esecutivo non potrà essere una semplice riedizione di quello in carica, perché adesso il primo Partito sarà Esquerra Republicana de Catalunya, l’ala sinistra dello schieramento, che supera di un seggio (33 a 32) e di un punto percentuale (21% a 20%), i rivali-alleati di Junts per Catalunya.
Il candidato di Erc, Pere Aragonès, sarà con ogni probabilità il prossimo padrone di casa del Palau de la Generalitat. Con il suo partito a guidare il fronte secessionista, si potrebbe scegliere la linea morbida (per i detrattori) o pragmatica (per i sostenitori) nei confronti del governo di Madrid. «A livello di retorica, Junts x Catalunya è più aggressivo, ma nella sostanza c’è poca differenza. I margini negoziali sono sempre gli stessi», dice a Linkiesta Toni Rodon, esperto analista dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona.
Con le sue prime parole da vincitore effettivo, però Aragonès lancia subito un messaggio all’esecutivo di Pedro Sánchez: «È il momento di risolvere questo conflitto, lasciando votare il popolo catalano in un referendum sull’indipendenza». A soffiare sul fuoco della secessione c’è un risultato mai ottenuto in nessuna votazione, né a livello regionale, né nazionale, né europeo: i partiti indipendentisti sfondano la soglia simbolica del 50%+1 dei voti, pur con un margine molto risicato.
Non hanno mancato di sottolinearlo tutte le forze del fronte secessionista e lo ha fatto anche, dal Belgio, Carles Puigdemont, destituito nel 2017 per aver tentato concretamente la secessione. La sua candidata, Laura Borràs, è arrivata terza e Junts per Catalunya dovrà cedere il comando del blocco, ma per l’ex presidente della Generalitat è una notte di trionfo: «Ha vinto l’indipendentismo». Il dato in effetti è storico, anche se va contestualizzato con la bassissima partecipazione. Oggi ha votato, fisicamente o per posta, solo il 53% dei catalani, mentre nel 2017, sull’onda emotiva della dichiarazione d’indipendenza, si era sfiorato l’80%. Da qui il paradosso per cui la causa dell’indipendenza ha numericamente perso sostenitori, ma guadagnato seggi.
Socialisti, vittoria senza gloria
È una serata agrodolce per l’ex ministro della Salute spagnolo, Salvador Illa, il pezzo da novanta messo in campo da Sánchez per compiere l’impresa di conquistare la regione più delicata del Paese. L’impresa è riuscita a metà: il PSC, costola catalana del Partido Socialista, raddoppia i suoi seggi rispetto al 2017 (da 17 a 33) e si prende il primo posto nelle preferenze dei cittadini. Ma non riesce a distaccare gli avversari indipendentisti, fallendo nell’obiettivo di guidare un governo “costituzionalista”, con tutte le forze politiche contrarie all’indipendentismo.
Una via con cui arrivare alla Generalitat Illa ce l’avrebbe, ma è difficilmente praticabile. I numeri del parlamento lasciano aperta la porta a un tripartito che unisca le anime della sinistra, indipendentista e non: il Partido Socialista, Esquerra Republicana de Catalunya e En Comú Podem, la versione locale di Podemos, che con il 7% dei voti e otto deputati è il principale sponsor di questa operazione. Peccato che Erc, come gli altri partiti indipendentisti, abbia sottoscritto un atto pre-elettorale in cui si impegnava formalmente ad evitare una coalizione con i socialisti. «Prima delle elezioni tutti dicono che non faranno patti. Ma dopo il voto a volte le cose cambiano», afferma Rodon. Fino al giorno dell’investitura nulla è deciso, ma l’opzione che porta i separatisti al governo è decisamente la più quotata.
Rivoluzione a destra
Se Illa è il vincitore aritmetico e Aragonès quello concreto, Ignacio Garriga, potrebbe essere considerato il vincitore morale di queste elezioni catalane. Il suo risultato è stupefacente: Vox entra per la prima volta nel parlamento catalano e lo fa trionfalmente, con 11 membri e il quarto posto complessivo nei voti. L’estrema destra ha seppellito le due anime della destra liberale e conservatore: Ciudadanos è crollato al 5%, una frana elettorale costata ben 30 deputati in meno rispetto alla tornata vittoriosa del 2017, mentre il Partido Popular ha proseguito il suo lento e inarrestabile declino diventando, con tre seggi, l’ultima delle forze rappresentate nell’emiciclo catalano.
I voti ottenuti dal partito più nazionalista di Spagna sono ancora più sorprendenti, perché la formazione di estrema destra aveva ricevuto un sostanziale boicottaggio sia dalle altre forze politiche che da parte della società catalana: una ferma opposizione che si è espressa in alcuni casi in modi molto originali (come una protesta delle femministe a seno nudo) e in altri semplicemente violenti (come lanci di pietre e aggressioni fisiche ai comizi). «Siamo il primo partito dell’opposizione in Catalogna», ha detto non senza malizia il leader nazionale di Vox, Santiago Abascal, che considera i socialisti come proni a “chi vuole distruggere la Spagna” e non fa mistero di voler sopprimere Generalitat e autonomia catalana. Alla retorica della “decolonizzazione”, promossa dai settori più radicali dell’indipendentismo, è già pronto a rispondere con quella della reconquista: il futuro politico in Catalogna non si annuncia per nulla conciliante.