A Pablo Iglesias non piace la democrazia. Almeno non quella spagnola, quindi non gli piace quella del Paese di cui occupa la poltrona di vicepremier. Avrei potuto dire «fa il vicepremier». Ma se uno guarda il bilancio della sua azione di governo negli ultimi 24 mesi, meglio parlare solo di poltrona.
Per capire meglio dobbiamo seguire briciole di pane del populismo europeo che, strada facendo, finiscono sempre per portarci a Mosca.
Venerdì scorso il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, ha schiaffeggiato Josep Borrell, alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea. La prima sberla del furbo Lavrov è stata sulla guancia europea di Borrell. La seconda, quella che oggi ci interessa, sulla guancia spagnola e catalana.
Ha comparato l’oppositore Aleksej Navalny con i leader indipendentisti catalani («sono in prigione per aver organizzato un referendum», ha detto) e ha messo in dubbio la qualità della democrazia spagnola, la 22esima al mondo, secondo il Democracy Index, mentre la Russia è al 124esimo posto, dietro la Palestina, l’Algeria e l’Iraq.
Cosa ci si poteva aspettare da un vicepremier spagnolo? Una risposta ferma che difendesse la legalità dello Stato spagnolo, ad esempio. Invece il leader di Podemos ha detto: «Non c’è situazione di piena normalità politica e democratica in Spagna visto che i leader dei due partiti che governano la Catalogna, sono uno in prigione e l’altro a Bruxelles».
Una dichiarazione rilasciata, non per caso, al quotidiano indipendentista catalano Ara, non per caso in piena campagna elettorale catalana – le elezioni si tengono questa domenica – e non per caso in pieno scontro con i socialisti, parte della coalizione con Podemos che oggi governa la Spagna.
A Pablo Iglesias piace atteggiarsi a salvatore della patria, ma i numeri nascondono un certo pragmatismo: i sondaggi nazionali lo danno già al di sotto del 10%; nelle elezioni catalane di domenica si aspetta che la versione catalana di Podemos sia attorno al 7-8%. E questo nonostante gli sforzi fatti per prendersi un po’ di voti nazionalisti infangando l’immagine della Spagna.
La sua frase sulla democrazia sarebbe una scemenza se non fosse, allo stesso tempo, una sintomatica descrizione del modo in cui il populismo si comporta una volta arrivato al potere. Prima di tutto promette e alza le aspettative. In secondo luogo, cerca grossi titoli altisonanti per le riforme da fare. Terzo, è incapace di portare avanti quelle stesse riforme, o le fa ma senza i risultati attesi. Quarto, dà la colpa ad altri partiti o agli alleati di governo. Infine colpevolizza l’inguaribile sistema democratico per poi ricominciare da capo e promettere ancora un orizzonte irreale in modo da avere più voti dell’ultima volta. E così ricomincia il giro.
Nelle ultime due settimane, Pablo Iglesias ha fatto proprio il giro perfetto dei cinque passi dell’inutilità populista. «Mi sono reso conto che essere al governo non vuol dire essere al potere», ha detto in un’intervista televisiva. Se siete sbiancati, non vi preoccupate: ha detto di peggio. «Non avrei dubbi sul nazionalizzare le aziende farmaceutiche se avessi il potere e questo garantisse il diritto alla salute». Capirete che non è uno sbaglio. È peggio. È la strategia populista dell’asino e la carota che non finisce mai.
Sembra quasi che Pablo Iglesias rimpianga i suoi tempi di attivista giovanile, quelli col bongo a Parco Sempione, per dirla con Elio e le Storie Tese, ma in realtà il capo di Podemos è molto più furbo.
Tutta questa strategia è soltanto un modo per sfuggire dalle sue responsabilità: stiamo parlando del vicepremier incaricato di coordinare le politiche sociali. Un ruolo che durante la pandemia è stato quasi un eufemismo. E ci sono solo due opzioni: spiegare che la gestione dello Stato è una cosa molto complicata e che tante volte le proprie azioni possono essere al di sotto delle aspettative, oppure attribuire ad altri le responsabilità della gestione disastrosa del governo spagnolo durante la pandemia come se lui non ne facesse parte. Ha scelto la seconda.
Cosa dicono i suoi “soci-alisti” del governo? Di fronte alle telecamere, niente. La portavoce del governo, María Jesús Montero, ha trovato una strana costruzione verbale – «voglio capire» – per fare un wishful thinking da manuale: «Voglio capire che queste dichiarazioni nascono dal desiderio di migliorare la qualità democratica in Spagna e poi vengono inquadrate in una campagna elettorale».
Chi se ne frega se nel frattempo uno dà delle munizioni diplomatiche alla Russia! La stessa nazione, val la pena ricordarlo, che ha finanziato tutti i partiti e movimenti in grado di destabilizzare l’Europa negli ultimi anni (l’estrema destra italiana, quella francese, la Brexit, gli indipendentisti catalani, per citarne solo alcuni).
Vale di più una coalizione di governo o l’immagine di un Paese? I socialisti spagnoli rischiano di zingarettizzarsi pure loro, guardando i populisti con occhi ogni volta più comprensivi. Come chi ha un figlio un po’ teppistello ma si sa, i tempi sono difficili, bisogna dargli tempo, con tutte quelle cose che guardano su Youtube, in fondo ha un buon cuore.
Nascosti dietro l’anonimato, i ministri socialisti si lasciano andare, come dimostrano le copertine di ieri di El Mundo o La Razón: «È intollerabile», «Iglesias è una vera caricatura», dicono politici senza nome. Ma non basta. Il premier Pedro Sánchez (quello che ai tempi diceva che «nessuno potrebbe dormire bene la notte con Iglesias da ministro») continua a zittire tutti per garantire la continuità del suo governo, lasciando i principi della democrazia liberale nel cassetto. In un momento in cui i principi sono, più che mai, l’unica bussola che può permettere ai sistemi parlamentari di tenere rotta.
La democrazia parlamentare dev’essere gestita dagli adulti. Purtroppo, in Spagna non c’è Mario Draghi.