La seconda ondata della pandemia ha messo in crisi la Cechia che, a partire dal mese di ottobre, ha dovuto ricorrere a lockdown e misure restrittive per cercare di arginare l’aumento di casi nel Paese. La linea dura scelta da Praga non ha però prodotto risultati apprezzabili e durevoli. Basti pensare che il tasso di incidenza del Covid-19 a 14 giorni si attesta, come riferito dal monitoraggio del Centro Europeo per la Prevenzione e il controllo delle malattie, a oltre 900 casi per 100mila abitanti ed è il secondo più alto in Europa. I decessi provocati dalla malattia hanno superato quota 18mila mentre, all’inizio di ottobre, erano fermi a 700. Il numero di casi totali registrati è ben oltre il milione su una popolazione di circa 10milioni e 700mila abitanti.
A stupire è il fatto che la Cechia aveva tenuto a bada con successo la prima ondata pandemica grazie all’adozione di un lockdown precoce e alla chiusura dei confini nazionali. La curva dei contagi, dopo essere rimasta piatta per mesi, ha iniziato a crescere all’inizio di settembre ed ha toccato un picco tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, quando i casi giornalieri sono stati anche 15mila. A novembre la curva si è piegata verso il basso (ma non troppo) e a partire dall’8 dicembre è tornata a crescere toccando un picco nella prima decade di gennaio (con quasi 18mila casi in un giorno). L’altalena si sta ripetendo dato che, dopo il calo di gennaio, i casi sono di nuovo in crescita.
La caotica situazione interna rischia di costare caro al primo ministro Andrej Babiš, alla guida di un governo populista a cui prendono parte il suo movimento di centrodestra, ANO, e il Partito Socialdemocratico. Il Partito Comunista, che forniva l’appoggio esterno, ha scelto di ritirarlo e i sondaggi in vista delle elezioni legislative di ottobre non sono incoraggianti. I Socialdemocratici rischiano di non superare lo sbarramento del 5 per cento e al primo posto dovrebbe piazzarsi un’insolita coalizione formata dal Partito dei Pirati e dal Movimento dei sindaci, centrodestra. Il partito di Babis è tre punti dietro la coalizione ed è sotto attacco da parte di chi pensa che abbia imposto troppe restrizioni e anche da parte di chi pensa che abbia fatto troppo poco.
L’esecutivo ceco aveva imposto le prime restrizioni all’inizio di ottobre, ordinando ai pub di chiudere alle otto di sera, limitando il numero di persone presenti nei ristoranti a quattro per tavoli e chiudendo palestre e piscine. Babis si era inizialmente impegnato a evitare un lockdown totale sullo stile di quello primaverile e anche il ministro della Salute Roman Prymula aveva spinto per la moderazione. Il potenziale collasso del sistema sanitario aveva però costretto il governo a un ripensamento e il 22 ottobre il Paese era tornato a un lockdown duro con la chiusura dei negozi non essenziali, bar e dei ristoranti (salvo l’asporto).
L’abbassamento del rischio epidemiologico dovuto all’adozione delle misure aveva spinto il governo, all’inizio di dicembre, ad abbassare il livello di allerta del Paese. La maggior parte delle attività erano state riaperte, seppur con modeste limitazioni, era stato abolito il coprifuoco notturno ed era stata persino consentita l’organizzazione dei mercatini di Natale. Il quadro complessivo non era, però, così rassicurante. La percentuale di test positivi sul totale era ancora molto alta, intorno al 20 per cento. L’indice di riproduzione del virus appariva sotto controllo ma diversi esperti erano preoccupati da una rimozione precoce delle restrizioni. Avevano ragione. A partire dal 18 dicembre è stato imposto un lockdown dapprima morbido, con coprifuoco alle 23, chiusura di ristoranti, pub, palestre, piscine e divieto di spostamenti turistici e poi più duro dal 4, gennaio. Queste misure sono ancora in vigore e sono state anche rafforzate: dal 23 febbraio è diventato obbligatorio utilizzare le mascherine FFP2 nei luoghi pubblici chiusi per fronteggiare la variante inglese.
Il ritorno alla normalità è appeso al successo della campagna di vaccinazione di massa e a un ritorno a condizioni climatiche più favorevoli che, a partire dalla tarda primavera, dovrebbero consentire la riapertura del sistema economico e produttivo. Il governo ha già fissato l’obiettivo di vaccinare almeno 7 milioni di abitanti entro l’agosto del 2021 e il 60 per cento dei cittadini si è dichiarato disposto a farsi immunizzare. La campagna, al momento, è nella sua fase iniziale e le dosi vengono somministrate ai lavoratori del settore sanitario e a chi ha più di 80 anni.
Alla fine di gennaio la società americana Pfizer ha annunciato un taglio del 20 per cento nella consegna delle dosi alla Cechia. I ritardi hanno provocato un rallentamento nelle vaccinazioni nel mese di febbraio e potrebbero prolungare la durata della campagna vaccinale, con ovvie ricadute in termini di costi umani ed economici.
Queste problematiche potrebbero spingere la Cechia, così come già avvenuto per l’Ungheria, a procurarsi i vaccini prodotti da Cina e Russia e a rompere con l’Unione Europea. Nel Paese sono state attualmente somministrate più di 545mila dosi di vaccino ma le tempistiche per vaccinare su larga scala potrebbero essere tagliate anche ricorrendo all’aiuto (interessato) di Mosca.
Se la Cechia piange, la Slovacchia non ride
La situazione non è migliore nella vicina Slovacchia, dove la variante inglese è diventata dominante ed è stata riscontrata nel 74 per cento dei campioni analizzati. La diffusione del virus ha spinto verso l’alto il tasso di mortalità che, al 16 febbraio e come riferito dai dati forniti dalla John Hopkins University, era il più alto al mondo con 1.78 morti per centomila abitanti. Tremilaottocento persone sono state uccise dal Covid-19 nel solo 2021 e tra le novemila e le undicimila potrebbero perire entro giugno se il quadro non migliorerà.
Bratislava si è trovata costretta a chiudere le frontiere, imponendo una rigorosa quarantena a chi arriva e a sospendere la riapertura delle scuole. Gli ospedali sono sotto pressione e la Presidente Zuzana Caputova ha definito la situazione come seria. Il Paese ha provato a sconfiggere il Covid-19 con una serie di misure innovative, come il ricorso ai test rapidi di massa su buona parte della popolazione per limitare la circolazione del virus.
Nel mese di novembre, dopo un breve lockdown, erano stati condotti test antigenici di massa a cui aveva preso parte i due terzi dei cittadini, l’1 per cento dei quali era risultato positivo. I test non hanno sortito l’effetto desiderato, anche a causa della loro scarsa affidabilità. Nuove restrizioni sono state imposte a dicembre e sono state poi rinnovate, con la chiusura di buona parte delle attività non essenziali, nel mese di gennaio.
Bratislava ha poi fatto ricorso ai test di massa e a partire dall’8 febbraio le restrizioni sono state calibrate in base alla condizione di ciascuna provincia. Un risultato di negatività al tampone, un certificato che provi il completamento del ciclo vaccinale oppure la guarigione dal morbo sono necessari per compiere alcune attività che comportino l’uscita dalla propria dimora. Il programma di vaccinazione, invece, è iniziato a rilento per poi accelerare. Tra il 26 dicembre e il 18 gennaio erano state somministrate appena 71.400 dosi di vaccino e con quei ritmi si era calcolato che ci sarebbero voluti sei anni per ottenere l’immunità di gregge nel Paese. A oggi le dosi somministrate sono oltre 367mila su una popolazione di poco inferiore ai 5 milioni e mezzo di abitanti.