Where are we running?, si chiedeva qualche anno fa in un pezzo-tormentone, vagamente filosofico, Lenny Kravitz. A furia di andare sempre di corsa, non staremo forse dimenticando la destinazione/obiettivo di fondo di tutti i nostri sforzi? Un genere di domande che può cogliere fulmineamente molti individui; ma anche interi sistemi politici. È il caso certamente dell’Unione europea, che proprio per la sua innata complessità e eterna indefinitezza (della sua natura giuridico-politica, della sua mission, dei suoi stessi confini) pare aver periodicamente bisogno di chiederselo, per provare a chiarirsi le idee e possibilmente metterle nero su bianco.
Non potendo per ragioni oggettive sedersi sul lettino di uno psicologo, il blocco ha negli anni trovato un altro sistema: quello di incaricare del compito grandi assemblee ad hoc. Nel decennio 1991-2001 quest’effervescenza progettuale portò addirittura alla convocazione di tre conferenze intergovernative, che diedero vita in rapida successione al Trattato di Maastricht (firmato nel ’92) e alle sue integrazioni di Amsterdam (’97) e Nizza (2001).
Un furore normativo che portò poco dopo al tentativo in assoluto più ambizioso: quello di una Convenzione di altissimo profilo allargata alla partecipazione anche dei parlamenti nazionali di partorire una vera e propria Costituzione europea. C’era da preparare il terreno per l’allargamento progressivo ad Est, oltre che chiarire e approfondire. le competenze comuni. Fu l’apice di quel processo di riflessione/espansione, e la sua fine – con la bocciatura sonora nei referendum popolari in Francia e Paesi Bassi (2005).
Molti anni e lunghi silenzi dopo, l’Ue sembra oggi pronta a riaprire formalmente la riflessione su se stessa. Sarà che l’ondata nazional-populista tanto temuta ha tutt’altro che travolto il progetto, sarà che la Brexit ha finito più per rafforzare che per indebolire Bruxelles, sarà che la pandemia ci ha costretto a unirci, nel 2021 vedrà la luce una nuova Conferenza sul Futuro dell’Unione. A confermarlo questo mercoledì sono stati gli ambasciatori dei 27 Paesi membri, che hanno dato ufficialmente il loro benestare al lancio dell’iniziativa, possibilmente il prossimo 9 maggio.
Di che si tratta? Di un esercizio pluriennale di riflessione che coinvolgerà rappresentanti delle tre istituzioni Ue (Consiglio, Commissione e Parlamento), dei parlamenti nazionali, ma anche cittadini di tutti i Paesi membri, oltre alle forze sociali ed economiche, per individuare i terreni di approfondimento dell’integrazione e le possibili riforme da apportare alla struttura stessa dell’Ue, sotto la guida tripartita del presidente del Parlamento europeo, di quello del Consiglio e di quella della Commissione.
Se avete un leggero mal di testa e provate il bisogno di rileggere il paragrafo di cui sopra, nessun problema, è normale. I dettagli da definire sono ancora moltissimi, e il progetto – a oggi – è tanto ambizioso quanto in cerca di un’anima e di una direzione certa. La pandemia, in questo senso, non ha certo aiutato.
Lanciata dal presidente francese Emmanuel Macron nel 2019, poi adottata dalla Commissione Von der Leyen, l’idea della Conferenza sembrava aver preso slancio un anno fa con la presa di posizione entusiasta del Parlamento europeo che ne chiedeva al più presto la convocazione, proponendo un format (allargato ai cittadini tramite delle agorà), una data d’inizio (9 maggio 2020) e una guida ambiziosa come quella dell’ex premier belga Guy Verhofstad. Il disastro sanitario ha rivoltato poco dopo la lista delle priorità europee. O meglio, fanno notare sottovoce in molti, ha dato un pretesto ai governi nazionali – più spaventati che convinti dall’impeto iper-democratico del Parlamento – per premere sul pedale del freno.
Mentre svaniva tra le nebbie dei lockdown la prospettiva di un grande evento (o meglio, somma di eventi) in presenza, la candidatura “federalista” di Verhofstad è stata discretamente ma fermamente osteggiata, sino a farla saltare, né c’è stato verso nella seconda metà del 2020 di trovare l’accordo tra governi e Parlamento su un altro nome per la presidenza. Ma la mobilitazione sia dei deputati che di molte organizzazioni della società civile ha costretto il Consiglio a scendere a patti. Risultato: la soluzione di compromesso della guida tripartita della futura Conferenza da parte dei presidenti già in carica delle tre istituzioni principali.
Se il Parlamento accetterà questa strada (la Commissione non porrà ostacoli), a dare presto avvio formale al processo sarà la pubblicazione di una dichiarazione congiunta delle tre istituzioni, attesa ormai da mesi, che fisserà tempi, modi e organi di gestione della Conferenza. Comprese, verosimilmente, indicazioni sul traguardo da raggiungere: nell’ipotesi iniziale, caldeggiata da Macron, il processo di riflessione si sarebbe dovuto concludere a metà del 2022, giusto in tempo per organizzare sotto la presidenza francese del Consiglio un grande evento di presa in carico dei frutti del dibattito. Ma non sono in pochi a pensare che, visto il ritardo accumulato alla casella di partenza, anche quella d’arrivo vada ora ripensata.
Tra le poche certezze operative, per il momento, c’è che stante la fragilità del quadro epidemiologico molti momenti d’incontro – specie per coinvolgere nel dibattito cittadini lontani e metterli in dialogo – dovranno tenersi online. La Commissione sta lavorando alla predisposizione di una super-piattaforma, selezionata per l’occasione, in grado di consentire non soltanto forum di discussione e proposte, ma anche l’interazione pan-europea tramite strumenti avanzati di traduzione automatica. Meraviglia della tecnologia o Babele 2.0? Il tempo dirà.
Resta, come riconoscono tutti gli attori in gioco, un problema non proprio di poco conto. E cioè che i lunghi mesi passati a battagliare su questioni di metodo hanno fatto passare in secondo piano la questione più importante: i temi, o se preferite gli obiettivi politici, della Conferenza. «È così», conferma al telefono Daniel Freund (Verdi), uno dei parlamentari più attivi nel rilancio del processo, che invita ora a tornare a parlare di contenuti, sottolineando l’unità del Parlamento attorno ai punti su cui l’Europa si è dimostrata «mal equipaggiata a rispondere alle sfide del 21esimo secolo, sia in termini di risorse che di processi decisionali: tassazione, regolamentazione dei giganti digitali, politica estera etc.». Più laico l’approccio di Citizens Take Over Europe, la coalizione di oltre cinquanta organizzazioni della società civile che si batte per l’allargamento più ampio possibile della partecipazione alla Conferenza, e che ha aperto a questo scopo una consultazione online perché siano i cittadini stessi a indicare le priorità.
Una leadership politica, tuttavia, dovrà necessariamente emergere una volta che il processo sarà aperto – sia quella di una delle personalità già note a livello Ue o una nuova, magari dalle fila del Parlamento stesso – perché le tante idee che inevitabilmente si affastelleranno vengano filtrate in una direzione chiara. Si punterà, dopo lo tsunami del virus, a un consolidamento delle competenze Ue in materia sanitaria, e a catena magari anche in altri ambiti? Si tenterà l’assalto, temuto da molti governi, al nodo del potere di veto sui dossier di politica estera e di difesa? Si chiederà di istituzionalizzare il piano di per sé provvisorio di Next Generation EU all’interno di una nuova architettura di politica economica? E tutto ciò porterà alla richiesta – impronunciabile da un quindicennio – di una revisione dei Trattati? Oppure, come è altrettanto possibile, finirà tutto in un nulla di fatto?
Dilemmi a cui nessuno, a oggi, sa dare una risposta, ma che solo il ritorno in scena della politica – anche a livello Ue – potrà risolvere.