Ho domandato a Michel Barnier se avesse mai discusso con Nigel Farage sulle ragioni della sua campagna per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Ho chiesto al leader del Brexit – mi disse Barnier – quali sarebbero state le relazioni fra Londra e Bruxelles dopo il distacco dal continente. «Non ci saranno più relazioni – mi rispose Farage – perché non ci sarà più l’Ue».
Le conclusioni del negoziato senza no deal hanno segnato non solo il destino delle relazioni fra Regno Unito e Unione europea ma quello dell’Ue perché l’obiettivo della campagna – che aveva trovato alleati al di là della Manica e al di là dell’Atlantico – era la divisione del Continente e in definitiva la dissoluzione del progetto di integrazione.
Chi segue da vicino gli affari europei sa che i negoziati per il recesso di un paese dall’Ue sono molto più complicati di quelli di adesione e che i risultati del referendum del 23 giugno 2016 avevano rischiato di produrre effetti di imitazione nei paesi dove erano diventati più rumorosi i movimenti euro-ostili e di esaltare la difesa di interessi nazionali in contrapposizione a quelli europei.
Così non è stato per varie ragioni, prima di tutto perché ha prevalso nelle istituzioni europee la consapevolezza che la posta in gioco era la salvaguardia dell’acquis communautaire e in secondo luogo perché è stato deciso che il negoziato sarebbe stato centralizzato nelle mani politicamente esperte di Michel Barnier – che avrebbe risposto al Consiglio, al Parlamento europeo e alla Commissione usufruendo soprattutto dei servizi della Commissione – e non nelle mani di un diplomatico come avrebbero voluto i governi nazionali.
Le conclusioni del negoziato – che ora devono essere ratificate dalla Camera dei Comuni, dalla Camera dei Lords e dal Parlamento europeo – hanno preceduto di poche ore l’approvazione definitiva da parte degli ambasciatori dei 27 Stati membri del Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027 a cui è strettamente legato il Piano per la ripresa europea (il Recovery Plan, che molti chiamano sbadatamente Recovery Fund, o Next Generation EU) e la possibilità di creare un nuovo debito pubblico europeo dopo quelli già avviati per far fronte alle conseguenze della pandemia come il programma SURE o i titoli della Banca centrale europea.
L’Ue può dunque uscire, provvisoriamente rafforzata, dall’annus horribilis e prepararsi a entrare nel 2021, in quello che alcuni auspicano che possa essere l’annus mirabilis per il suo futuro?
Quel che è avvenuto in due settimane fra il 10 dicembre 2020 (inizio del Consiglio europeo) e il 24 dicembre (approvazione definitiva del Quadro Finanziario Pluriennale) lascerebbe ben sperare per il prossimo anno ma gli ostacoli da superare sono ancora poderosi e l’esperienza ci insegna che la corsa dell’Europa è stata sempre rallentata se non paralizzata quando ha prevalso il metodo intergovernativo.
Il primo ostacolo è legato alla necessità e all’urgenza di dotare l’Ue di risorse proprie, quantitativamente e qualitativamente adeguate, per finanziare a lungo termine il debito pubblico europeo e non ricorrere ai contributi nazionali.
Come sappiamo, la Commissione potrà finanziare i 750 miliardi di Euro del Next Generation EU solo se e quando tutti i parlamenti nazionali avranno ratificato l’aumento del massimale delle risorse proprie dall’1.2 al 2.0% del Reddito globale dell’Ue e il debito pubblico potrà essere rimborsato dall’Ue e non dagli Stati membri fra il 2028 e il 2058 solo se saranno introdotte le risorse proprie che proporrà la Commissione, come la carbon tax alle frontiere esterne, la web tax sui giganti del digitale, un’aliquota minima dell’imposta sulle società in tutta l’Ue per annullare le distorsioni nel mercato interno e – perché no ? – delle imposte europee sui giochi d’azzardo che pagano cifre scandalosamente irrisorie, e sul tabacco come proponiamo da tempo.
A meno che si dia seguito all’idea che circola da mesi – lanciata dal governo spagnolo, dai Gruenen tedeschi e dal Movimento europeo ispirata dal premio Nobel dell’economia Robert Shiller – di titoli perpetui destinati a creare una forma innovativa di azionariato europeo come ha fatto a fine agosto Intesa San Paolo con un bond perpetui ben accolti dal mercato con ordini per 6,5 miliardi di Euro.
Il secondo ostacolo è apparso in tutta la sua drammatica evidenza dal rischio di paralisi provocato dall’uso improprio del diritto di veto e del voto all’unanimità nel Consiglio e nel Consiglio europeo (un’istituzione rafforzata dal Trattato di Lisbona che si è auto-attribuita poteri di decisione legislativa che non le spettano) che incide pesantemente nella politica estera rendendo impossibile l’autonomia strategica, sui diritti dei cittadini, sulla politica fiscale, su bilancio e risorse proprie, su una parte importante degli affari interni e la giustizia, sulla sicurezza e la protezione sociale.
Di fronte all’inefficacia delle cosiddette clausole passarella (art. 31 e 48 TUE) e delle cooperazioni rafforzate/strutturate (art. 20 e 42 TUE), l’unica strada è quella di inserire l’abolizione del voto all’unanimità nel quadro di una più ampia riforma dell’Ue che preveda la trasformazione del Consiglio in una Camera degli Stati e il contemporaneo rafforzamento dei poteri del Pe per compensare la cessione di sovranità nazionali con il completamento della democrazia europea.
Si deve in definitiva evitare che l’Ue si dissolva come avvenne allo Stato polacco a causa del liberum vetum nella Dieta polacca e che fu sostituito solo con la costituzione del 1791 e l’introduzione del principio democratico maggioritario.
Il terzo ostacolo nasce proprio dal metodo intergovernativo che ha imposto nel Trattato di Lisbona la possibilità che gli Stati, da cui derivano le competenze attribuite all’Ue, possano far regredire l’acquis communautaire (art. 48.2 TUE) e che il liberum vetum applicato alla revisione dei trattati impedisca una profonda riforma dell’Ue (art. 48.4 TUE).
L’unica soluzione per sormontare quest’ostacolo, e dunque evitare all’Ue il destino dello Stato polacco, è quella di superare i limiti delle procedure di revisione dell’art. 48 TUE e percorrere la via che fu indicata dal Progetto Spinelli nel 1984 di un nuovo trattato elaborato dal Pe da sottoporre direttamente alla ratifica dei parlamenti nazionali, come è consentito dalla Convenzione di Vienna sui trattati, cogliendo l’occasione della Conferenza sul futuro dell’Europa per creare un consenso maggioritario su questa via alternativa alla paralisi intergovernativa e proporre una soluzione politicamente e giuridicamente innovativa dell’integrazione differenziata.
*Pier Virgilio Dastoli è il presidente del Movimento Europeo – Italia