Se il pensiero prevalente dei commentatori è che questa crisi è “incomprensibile”, frutto solo del capriccio di un “irresponsabile”, a noi che la vediamo in modo un po’ diverso e che pensiamo di averla invece un po’ capìta, viene il dubbio di essere molto intelligenti e responsabili, ed è un imperdonabile peccato di superbia che dovremmo confessare. Vedremo come andrà a finire, perché l’inutilità si misura alla conclusione, nell’esistenza o meno di un cambiamento. Eppure, insistiamo, era ora che qualcuno dicesse che bisogna distinguere tra il dito (solo quello di Matteo Renzi?) e la luna taciuta delle tante cose da fare e non fatte, o fatte male.
Leggendo qua e là nel fine settimana, però, qualcosa ci porta già ora a pensare che quel mantra che accomuna il fronte di chi preferiva andar avanti così, è la coperta corta di un conformismo difficile da abbandonare. È il conformismo dei luoghi comuni su cui è stata costruita la cosiddetta Seconda Repubblica, di cui quasi tutti i protagonisti di oggi sono la rappresentanza, anche nel giornalismo e nell’intellighenzia, ed è difficile smentire sé stessi.
Prendiamo il caposaldo più rilevante di tutti: la virtuosità del maggioritario rispetto al proporzionale. Buttato in pasto all’appetito dei partiti cosiddetti minori, è ormai assodato che si va al proporzionale. Lo dice Conte, ma non avendo curriculum ha poca importanza (Mario Segni chi era costui?). Ma, udite udite, lo dice Goffredo Bettini, il tutor di tutta la politica romana degli ultimi vent’anni. Nato con Walter Veltroni, che oggi però, insieme a Romano Prodi, è un isolato profeta inascoltato del maggioritario. Un maestro e un allievo che hanno diviso le loro strade.
Con grande disinvoltura, il consigliori strappato alle spiagge thailandesi, l’inventore della “quarta gamba” da costruire senza sapere se sopravvivrà la seconda, quella grillina, arriva a giudicare il sacro maggioritario “una damigiana” pronta a scoppiare come contenitore di troppe differenze. Quasi un insulto, un’allusione alla sbornia di un ex pensiero unico (da Confindustria ai giornaloni), che presentava il maggioritario come la soluzione di tutti i problemi, con incorporata un po’ di antipolitica d’avanguardia.
Primo risultato di una crisi “inutile”, dunque, la scoperta che il proporzionale – Bettini dixit – è più democratico. Non è poco. Ma andiamo avanti. Qua e là si moltiplicano le denunce del livello basso, molto basso, della qualità dell’attuale della classe politica. Nella trasmissione di Barbara Palombelli, sempre nel week end, si è osato persino parlar bene della Prima Repubblica.
È un altro colpo alla credibilità del maggioritario, simbolo del passaggio tra due Repubbliche, quando gli si attribuivano qualità taumaturgiche nella capacità di sfornare politici nuovi, smaglianti, vaccinati al male delle preferenze. Gente non dell’uno vale uno, ma dell’uno contro uno, sognando la mai realizzata scelta all’inglese, ma senza ripescaggi, doppie candidature, riserve indiane e collegi sicuri.
Quel che è passato dalle urne, Mattarellum compreso, è stato invece proprio questo, un mix sempre più su misura delle segreterie di partito, proprio nel momento in cui i partiti venivano cancellati. Una contraddizione non certo risolta da primarie telecomandate o piattaforme Rousseau. Nell’analisi, dunque, emerge la responsabilità delle cattive leggi elettorali, ma non si ha quasi mai il coraggio di arrivare alle conclusioni concrete, e cioè di dire chiaramente che abbiamo una classe politica non all’altezza delle sfide che ha di fronte.
Un po’ di autocritica non guasterebbe. L’antipolitica non l’hanno inventata i 5Stelle. Viene da lontano, in parte dall’intestino profondo di qualsiasi democrazia, da quella di Pericle in poi (il governo del popolo è sempre limitato dai pregiudizi, dalle invidie, dalle rivalità del popolo). Ma in parte viene dalla superficialità con la quale la politica viene raccontata. Anche in questa crisi, quando c’è un nodo difficile da spiegare, un passaggio da approfondire, tutto viene risolto con il riferimento alle “poltrone”. Nel bene e nel male.
Anche l’insistenza di Renzi nell’esaltare i suoi ministri che lasciano le poltrone va in parallelo con tutti quelli che semplificano le cose in termini di attaccamento alle medesime. Ma il filo in fondo è sempre lo stesso: se lasci decidere le poltrone alle segreterie, se porti in Parlamento non i migliori scelti davvero dagli elettori ma da destini fortunati e casuali, si riesce poi a parlare solo di una crisi attorno alle poltrone. Che in sé dovrebbero essere invece il simbolo del potere, perché di che altro si occupa legittimamente la politica? Se c’è solo la rappresentazione monotona della valenza individualistica, dell’egoismo dell’interesse personale, la politica degrada a prassi fine a se stessa. Questo dovrebbe essere il fattore critico da denunciare. E poi, soprattutto, il risultato è che i migliori se ne stanno alla larga.
Non mancherebbero italiani di qualità – non solo Mario Draghi, un altro che in questo periodo vorrebbe stare alla larga – per ricoprire ruoli parlamentari o di governo. Ma oggi la cosa attrae di più gli scappati di casa dell’improvvisazione. E in qualche momento della storia recente c’è chi ha celebrato l’incompetenza al potere. Beppe Grillo è ancora dell’idea del sorteggio. Se poi, ai migliori, fai sapere che Conte guadagnava da avvocato più di un milione e da presidente poco più di 100mila, scappa anche la voglia residua, perché ti prepari a ricevere anche le beffe della messa in berlina.
Terza riflessione, sempre leggendo i giornali di quest’ultimo week end. Ha suscitato scandalo un articolo di Concita De Gregorio, che ha notato quanto la sinistra sia caduta in basso passando da Enrico Berlinguer a Nicola Zingaretti. Quest’ultimo ha preso cappello e abbiamo avuto anche lo spettacolo del commentatore dei commentatori. Mai visto un politico che critica un giornalista politico. Un caso di cane morsicato dall’uomo.
Il fatto è che Concita ha toccato nervi scoperti, beccandosi della radical chic solo perché ha notato, e scritto, quello che hanno visto in diretta tutti i telespettatori del Quirinale. Il segretario erede delle tradizioni nobili della sinistra, impacciato, a disagio, all’inseguimento del suo dinamico predecessore e abbracciato ancora al Conte leader progressista descritto da un momento di ottimismo di Bettini. Futuro candidato premier alle elezioni, o il rivale rubavoti. Con fuga finale dal microfono, imboccando la porta di uscita sbagliata.
Una prova di protagonismo al contrario. E buon per la sinistra che la De Gregorio non ha raccontato di quelli di Leu e dintorni, perché il resoconto sarebbe stato davvero avvilente. Quelli della sinistra “estrema” ancor più “timidi” di quelli della sinistra responsabile. Uno spettacolo deprimente, senza una proposta, uno spunto in positivo, senza dire niente “di sinistra”.
E poi dicono che questa crisi è inutile. Basterebbero questi show di un weekend triste per dare la possibilità di molte riflessioni. E di qualche azione.