Nostalgia della canagliaIl comunismo fu un disastro, dice Rondolino. E il progressismo distopico non è tanto meglio

Lo scrittore ed ex militante ha appena scritto un libro appassionato: “Il nostro PCI. 1921-1991”. E ci racconta che se il Partito stava dalla parte sbagliata, lui i partiti veri li rimpiange. E gli manca anche una sinistra che non sbandierava la certezza secondo cui il mondo andrà comunque a rotoli

Tratto da: Il nostro PCI (Rizzoli)

L’anniversario della nascita del Partito comunista italiano ha messo in moto una vasta e interessante serie di riflessioni sulla storia del partito, su ciò che ne resta, sugli errori e sui meriti. Non solo analisi documentate, ma anche resoconti personali, perché il lato umano, i militanti che hanno creduto all’idea, continua ad affascinare più ancora delle ragioni storiche. Sul crinale fra questi due approcci diversi c’è “Il nostro PCI. 1921-1991. Un racconto per immagini” di Fabrizio Rondolino, un racconto accurato delle vicende del partito, ma in cui la vicenda personale, anche sentimentale, entra prepotentemente. È forse l’unico modo possibile per raccontare coerentemente la grossa contraddizione tra idee giuste e sistemi che hanno costruito prevalentemente sofferenze. Al racconto di Rondolino, si accompagna una mole notevole di immagini, frutto di una ricerca che si capisce realmente appassionata – manifesti, tessere, propaganda elettorale, pagine di giornali di partito – che restituiscono la gioia e la convinzione per la vicenda. E la nostalgia.

Una volta “nostalgico” era quasi sinonimo…
…di “fascista”, come no. Significava proprio questo.

Adesso ho l’impressione che la nostalgia sia più di sinistra.
Secondo me, oggi, la nostalgia è democratica. Non è di sinistra. Nel senso che tutti noi, tutte le persone con un po’ di senno almeno, rimpiangono la cosiddetta Prima Repubblica, cioè rimpiangono un sistema democratico fondato sui partiti. E un sistema dove per partiti non si intende il comitato elettorale del leader, ma strutture ampie, stratificate, che coinvolgono migliaia, qualche volta centinaia di migliaia di persone in quella che si chiamava una volta la partecipazione democratica. E, secondo me, questa cosa che abbiamo buttato via con grande disinvoltura, siamo in molti a rimpiangerla. Per questo credo che, oggi, nostalgico equivalga a repubblicano.

Una democrazia senza partiti è possibile?
Nel Novecento democrazie senza partiti, onestamente, non ce ne sono state. Vuoi sapere se perciò siamo in una situazione particolarmente fragile? La risposta è sì.

È possibile ricostruire comunità di quel tipo? O che sia impossibile è un dato di fatto e dobbiamo rassegnarci?
Quando è nata Forza Italia, fu accusata dalla sinistra di essere un partito di plastica, anche con un certo senso di superiorità. In realtà è stato un partito tradizionale, nel senso che aveva le sedi, aveva gli intellettuali di riferimento, non aveva gli organismi dirigenti perché decideva tutto Silvio Berlusconi e perché non si può avere tutto. Però era una comunità e, in parte, è ancora una comunità. Anche il Movimento Cinque Stelle delle origini era una comunità fortemente identitaria. Tra l’altro noi pensiamo, ormai, che i grillini siano una cosa della Rete, ma in realtà la Rete arriva dopo ed è quella che li uccide definitivamente. I grillini erano quelli dei meetup, cioè persone fisiche che si ritrovavano fisicamente in un quartiere e decidevano di risolvere, o di provare a risolvere, il problema X. Ed era esattamente quello che faceva il PCI: le cellule e le sezioni del PCI si occupavano di far mettere il semaforo dove c’era l’attraversamento pedonale, non è che si occupavano dei costi del socialismo, no, quello era un affare per dirigenti. Per questo credo che un rapporto tra partiti e comunità possa esistere ancora, anche in un Paese disastrato come l’Italia. Bisogna che qualcuno lo faccia e si assuma anche la fatica di gestire questo baraccone, perché è chiaro che con un computer taroccato, come hanno poi fatto i Cinque Stelle, così sì che è più facile dirigere un movimento. Mentre incontrare personalmente migliaia di persone può essere faticoso, e questa fatica mi sa che i leader di oggi non hanno voglia di caricarsela.

Ottenere consenso è più immediato?
Sì, però va e viene. Guarda la parabola di Matteo Renzi, o quella del M5S o di Matteo Salvini, considerando anche che nessuna di queste si sia ancora conclusa: si passa dal 40 al 4 per cento con una rapidità sconcertante. Questo ti dà l’idea di una friabilità assoluta. Un partito serio può avanzare di uno o due punti, poi arretra, poi riavanza, ma insomma, non è che passa dal 20 al 40 e al 20, così, a caso.

L’appendice del libro in cui riporti tutti i risultati elettorali del Pci mostra delle variazioni minime, elezione dopo elezione.
Sì, qualche volta solo uno 0,2 per cento. Gli iscritti salgono, poi un po’ si contraggono, poi risalgono. E alla Democrazia cristiana o al PSI capitava più o meno la stessa cosa.

Nel libro ricordi che gli iscritti al Pci sentivano di essere dal lato giusto della storia. E molti di loro tuttora pensano al Pci come a un’esperienza giusta. Allo stesso tempo, la storia ci ha mostrato che quello, però, non era davvero il lato giusto della storia. Dunque, come si tengono assieme le due cose?
La tua domanda riassume la contraddizione, secondo me veramente unica, del Pci. Perché che il comunismo fosse non soltanto un disastro, ma un’autentica tragedia, già negli anni Settanta lo avevano capito tutti. Io mi iscrivo a sedici anni, nel ‘77, e per me già allora era evidente che l’Unione Sovietica fosse una dittatura orribile. Anzi, mi ricordo perfino che, quando avevo otto anni, ci fu l’invasione di Praga e mio padre mi spiegò che bisognava stare con Dubcek, perché la sinistra vera non erano i sovietici. Quindi tutta la mia generazione arriva al Pci già sapendo che l’Unione Sovietica è un sistema totalitario intollerabile. Ciononostante, sventola la bandiera rossa, esibisce la falce e martello e si definisce comunista.

Perché?
Perché pensavamo anche – non so quanto ingenuamente o quanto furbescamente – di essere una cosa radicalmente diversa, cioè di essere italiani e, quindi, comunisti italiani. E questo aggettivo nazionale risolveva, in qualche modo, tutti i problemi. Naturalmente questo valeva per il corpo dei militanti, perché il gruppo dirigente riceveva i finanziamenti dell’Unione Sovietica, quindi non è che il legame non ci fosse, c’era eccome. Però, negli anni miei, un’esaltazione esplicita dell’Urss non c’è mai stata. Si divideva il mondo in due blocchi e si parlava di “campo socialista”. Campo socialista è un termine positivo, no?

Racconti di quando Natta vedendo crollare il muro di Berlino disse «ha vinto Hitler». Mi pare esemplare.
Si, questo spiega in termini politici la contraddizione. Ma la figura più rappresentativa di questa contraddizione è Giorgio Amendola che è il padre della corrente riformista. Tra l’altro, lui è il primo il primo, alla fine degli anni Cinquanta, a sollevare il problema della democrazia interna e a proporre che si voti su mozioni, cioè che ci si divida. Quindi molto in avanti sui tempi. E ciononostante lui, nell’81, quando i sovietici invadono l’Afghanistan, difende l’Unione Sovietica. E la difende esattamente con questo argomento: cioè che il mondo è diviso in due, e finché il mondo è diviso in due e c’è la Guerra fredda noi, comunque, dobbiamo stare da quella parte là. Poi a casa nostra facciamo come ci pare, siamo riformisti, siamo democratici, siamo persino liberali, ma nel mondo stiamo con il campo socialista. E questa è la contraddizione che portò, poi, all’implosione del partito, perché quando il campo socialista si dissolve anche il Pci è costretto a sciogliersi, no? Se avesse abbandonato quel mondo anni prima, oggi ci sarebbe ancora, non avrebbe avuto motivo di sciogliersi.

Parli a lungo anche della “purezza” del Pci e di come questa abbia, in parte, portato al settarismo. Non so se consideri il Pd l’erede del Pci, ma un partito che si affanna alla ricerca dei responsabili mi pare che quel senso di superiorità l’abbia perso, no?
In realtà, le due cose possono coesistere perfettamente: sentirsi dalla parte giusta della storia, e fare i commerci più turpi proprio perché sei dalla parte giusta della storia. Però le due cose mi paiono incommensurabili. L’arrocco berlingueriano, semmai, somiglia ai Cinque Stelle delle origini, cioè l’idea che il mondo politico, in blocco, sia corrotto, truccato, e pieno di malfattori e che quindi si debba costruire un’alternativa all’intero sistema di partiti, perché sei diverso, onesto, migliore, eccetera. Questo è l’ultimo Berlinguer e questa è la piattaforma del Movimento Cinque Stelle, oggettivamente. Ma quello che è interessante è che di tutto il Pci, l’unica cosa che sembra sia sopravvissuta è quella meno caratteristica della storia del Pci, cioè gli ultimi anni di Enrico Berlinguer che sono gli anni dell’arrocco. Mentre la grande forza del Pci, dal ’44 in poi, è stata il contrario esatto, non arroccarsi ma cercare sempre alleanze con questo e con quello e considerarsi sempre parte di un’alleanza mai autosufficiente. Invece Berlinguer si pensa autosufficiente e questa cosa, in qualche modo, arriva nella Seconda Repubblica.

Torniamo un attimo al senso della storia. Dopo la fine del comunismo la storia ha perso il lato giusto?
Da un punto di vista filosofico, forse ha ragione il libro del Qoelet e non c’è mai nulla di nuovo sotto il sole. Cioè l’umanità non fa altro che ripetere gli stesse tre o quattro pattern comportamentali e la tragedia greca funziona esattamente come le serie americane. Quindi l’uomo non cambia mai e la storia non va da nessuna parte. La cosa interessante è, però, come noi umani raccontiamo questo disordine, cioè l’idea della storia che è solo una rappresentazione della mente umana, una costruzione razionale che ha poco a che fare con la realtà, ma che ci consente di vivere meglio dentro la realtà. Perché la storia è l’idea che ci sia un futuro e che questo futuro sia meglio del passato. Questa cornice concettuale ti consente di dare un senso alle cose che fai e di vivere meglio il tuo presente. Ancorché insensato, viene però collocato in una luce e in una prospettiva diverse. E questa cosa è andata completamente smarrita. La politica di oggi non ha il senso della storia, non studia il passato – e quindi è ignorante come una capra – e non ha una cornice teorica che gli consenta di immaginare il futuro e quindi tentenna. Perché i partiti di oggi cambiano il nome, leader, segretario, linea politica in ventiquattro ore?

Perché?
L’esempio più illuminante è il nostro presidente del Consiglio che è l’unico nel mondo conosciuto che ha presieduto un governo con la destra sovranista e subito dopo un governo col Pse visto che il Pd fa parte del socialismo europeo. Questo ti dà l’idea che è solo un problema di marketing. Ma è chiaro che il marketing vive nel presente assoluto, è una sua caratteristica, però è anche chiaro che se tu schiacci tutto così poi dopo può succedere qualsiasi cosa: vincono i fascisti, c’è la guerra civile, ci invade Putin, c’è il finimondo.

Il comunismo aveva una prospettiva messianica che non può avere nessun sistema adesso in atto.
Nasce tutto da Hegel, come sai, che inventa la rappresentazione della storia in cui tutto trova il suo posto e il suo significato. Il marxismo, in tutte le sue declinazioni, anche in quella socialdemocratica riformista, ha una forza messianica molto potente. Ma oggi l’unico messianismo è un messianismo distopico, ed è quello di Greta, cioè l’idea che l’uomo sta distruggendo il suo mondo – che è un’idea falsa. Ma, ripeto, anche che il mondo andasse verso il meglio era falso. Quello che conta è la rappresentazione. Però mentre, fino a qualche anno fa, avevamo varie filosofie della storia in competizione tra di loro che, però, immaginavano un futuro migliore, anche col progresso scientifico, per esempio, adesso abbiamo questo progressismo distopico, cioè l’idea che il mondo sarà sempre peggio. E naturalmente questa è un’idea che ci riempie di angoscia e ci paralizza, e non ci aiuta affatto a migliorare il mondo in cui viviamo. Si tratta di una banale considerazione di psicologia sociale. Se ti dicono che va tutto a puttane, tu ti ubriachi, non è che ti metti a costruire un mondo migliore. Ci sarà giusto uno che pianta un albero ogni tanto.

Era una delle promesse di questa estate, quando hanno fatto gli Stati Generali, ricordi?
E le abbiamo piantate?

Ovviamente no. Ma quindi tu non credi al mondo come Eden?
L’Eden è un luogo in cui non torneremo più, mentre il socialismo era l’Eden in cui stavamo andando: il paradiso terrestre era alla fine della storia, non era all’inizio. Se tu lo metti all’inizio e stabilisci che ogni passaggio è un ulteriore decadimento tendi a paralizzare le energie di ciascuno.

Nel libro fai una grande ricostruzione storica, ma il tuo libro è innanzitutto un’enorme e meravigliosa ricerca iconografica. Una cosa che si nota subito, osservando le immagini, è che è scorretto dire che il liderismo sia una novità della politica degli ultimi anni, il Pci aveva una concezione del leader molto forte.
Non è che Alcide De Gasperi o Pietro Nenni fossero meno leader… Ma la vera e anche tragica differenza, era il culto della personalità, perché con Palmiro Togliatti viene riprodotto in Italia il modello staliniano del culto della personalità. A parziale discolpa di Togliatti va detto che lui stesso, anziché moltiplicarlo, lo teneva sotto controllo. E lo utilizzava solo perché, comunque, serviva. E, spesso, associava a sé anche l’immagine di Antonio Gramsci, mutuata dal rapporto Lenin-Stalin. Però Gramsci era noto più come intellettuale che come politico e quindi la cosa era più smorzata che nell’Urss. Ma la vera differenza è che i leader di allora erano leader che rappresentavano il corpo del partito. Non erano dei sovrani assoluti, c’erano discussioni aspre, a volte anche violente, dopodiché tutto si ricomponeva, perché il centralismo democratico e anche un certo costume e una certa serietà suggerivano che si litigava, poi si trovava un accordo e non si portava il litigio fuori. Però non erano, mi ripeto, sovrani assoluti o capricciosi come quelli di oggi, perché dovevano continuamente confrontarsi con altre personalità. Il Pci era un partito di tante personalità e quando Togliatti, negli anni Cinquanta, dirige il partito – sono gli anni del suo massimo splendore – se la deve vedere con gente che ha fatto la resistenza, la guerra di Spagna, vent’anni di galera col fascismo, non proprio dei ragazzini trovati così su Facebook. Anche Berlinguer aveva un problema analogo, ma rovesciato: lui era giovane e doveva fronteggiare Ingrao, Amendola, Pajetta. Un leader così era un leader condiviso, anche per questo durava tanto e anche per questo alla fine era una persona rispettata, perché la sua leadership era sempre una leadership collettiva, e anche lui ne era l’espressione. E il culto della personalità era un aspetto di propaganda non di sostanza. Il leader era il punto di equilibrio, non il padrone.

A proposito di Facebook che hai citato. Diversi manifesti del Pci che hai pubblicato erano già molto diretti, e avevano già la ferocia e la rapidità dei meme. Esagero?
Il Pci doveva parlare in questo modo perché una parte del suo mondo era analfabeta. Si rivolgeva a operai e contadini, molti dei quali sapevano a stento scrivere il proprio nome. Poi, naturalmente, l’Italia si alfabetizza, ma anche quando si alfabetizza, negli anni ’60, la comunicazione – e questo il PCI l’ha anche teorizzato – doveva essere il più possibile semplificata e il più possibile diretta. Questa è stata una fissa di Togliatti, proprio lui personalmente aveva un’idea pedagogica secondo la quale si doveva sempre spiegare, semplificare, illustrare, mostrare, non stancarsi mai di farlo. E sosteneva anche che la grandezza di un intellettuale sta nel sapersi far capire dall’operaio. Ora, al di là di questa frase che, di per sé, potrebbe essere anche un po’ retorica, dietro poi c’era un lavoro immenso di semplificazione, che tentava, allo stesso tempo, di non banalizzare mai.

Mi fa pensare a quell’altra nota citazione di Togliatti, quando accusò un dirigente chiedendo “e tu vuoi fare la rivoluzione senza sapere cosa ha fatto la Juve?”. Andrebbe studiata ancora dai politici di oggi. Cosa resta del Pci nel Pd, se resta qualcosa…
Nulla. Non rimane, ovviamente, l’ideologia. Non rimane il riformismo. Non rimane tutto il senso di comunità e di appartenenza a una storia che è polverizzato, anzi disintegrato da un ceto politico che si fa la guerra continuamente, che si scinde e si riscinde – adesso sono tre o quattro gli eredi del Pci, più altre sigle quasi folkloristiche. È completamente perso il senso della storia a cui i singoli pensavano di partecipare, quasi convinti di essere al servizio di un progetto più grande. E sono venuti meno anche il rigore e la serietà, cioè l’idea che, prima di parlare, si impara e si studia. Quindi, mi dispiace, non è rimasto niente.

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