Una settimana spettacolare
«It’s Impeachment Week!», fanno gli spiritosi da Washington; un po’ perché stavolta dovrebbe durare una settimana sola, un po’ perché è un evento spettacolare, tragico-pop, un processo a un fresco ex presidente accusato di aver incitato al golpe.
Comunque, oggi all’una (19 ora italiana) parte l’Impeachment Week. E sarà una settimana di autocoscienza americana con finale aperto.
L’assoluzione è garantita o quasi (sarebbero necessari i due terzi del Senato), i repubblicani hanno paura dei trumpiani, i colpi di scena non sono esclusi trattandosi di Donald Trump e dei suoi rivoltosi, il supporto audiovisivo promesso è quello impressionante dell’assalto al Campidoglio.
Il processo a Trump, che non sarà presente, inizierà domani con quattro ore di dibattito e un voto sulla costituzionalità dell’impeachment di un presidente non più in carica. Da mercoledì, democratici e repubblicani avranno trentadue ore, sedici e sedici, per presentare i loro argomenti. A un certo punto, gli impeachment manager dovrebbero chiedere un dibattito e un voto sulla convocazione di testimoni. Jamie Raskin, il deputato del Maryland che guida l’impeachment, ha chiesto di chiamare a deporre Trump, ma molti democratici non ne hanno più voglia. Perché farebbe uno show, perché mentirebbe ancora davanti al Congresso e bisognerebbe ri-impeacharlo. Perché, ha raccontato a Politico Richard Blumenthal, senatore del Connecticut, «non le dico quanto mi sto godendo le prime giornate Trump-prive in cinque anni», e altri sono d’accordo, nessuno ha voglia di rivederlo in azione.
Le due maggioranze
Sull’ex presidente in esilio a Palm Beach c’è, comunque vada, una maggioranza bipartisan. Quella che dovrebbe assolverlo, e quella vera e nascosta non ne può più di Trump.
I democratici vorrebbero fosse condannato ed escluso da pubblici uffici e candidature, specialmente alle presidenziali del 2024. Molti deputati e senatori repubblicani non lo reggono più; ma sono terrorizzati da lui, e dai trumpiani e post-trumpiani (post-verità, post-fatti, post-garanzie democratiche) che sono ormai la base del partito. Temono di venire sfidati e sconfitti alle primarie, ricevono minacce individuali e alla famiglia, paventano rivolte in caso di condanna. Che – al netto di pentimenti in aula tipo Mr. Smith Goes to Washington – non ci sarà. Trump «è bravo a fare la vittima», dicono i senatori repubblicani che parlano anonimamente coi giornalisti. «Se fosse condannato succederebbe l’ira di Dio. I suoi sostenitori sarebbero furiosi, ed energizzati».
Temendo i sostenitori, i senatori repubblicani, tutti tranne cinque (i soliti Collins-Murkowski-Romney-Toomey-Sasse) o poco più quasi certamente voteranno per assolverlo. Qualcuno, come Marco Rubio che è nervoso perché alle primarie dell’anno prossimo in Florida troverà, forse, Ivanka Trump, e dice che questo processo è stupido.
Qualche democratico ricorda che i repubblicani non sono anime belle. Che hanno apprezzato Trump finché portava tagli alle tasse, regolamenti aboliti e giudici reazionari. Che nei molti stati dove governano lavorano per ridisegnare i distretti e sopprimere il voto e rivincere nelle elezioni di midterm; e cercheranno sereni i voti delle milizie americanfasciste e dei seguaci di Qanon. Però, intanto, in effetti, qualche senatore trumpiano si allontana.
Lindsey e la storia
Lindsey Graham è del South Carolina, come Frank Underwood di House of Cards; tutti e due hanno storie politiche tortuose. Graham, per anni amico devoto di John McCain, sprezzante con Trump, dopo la sua elezione nel 2016, di colpo e non si sa per cosa, è diventato trumpianissimo. Dopo la sconfitta di Trump e la sua rielezione in Senato, è trumpiano a giorni alterni. In quelli dispari, si vergogna.
Domenica, a CBS’s Face the Nation, ha detto che il 6 gennaio, il giorno dell’assalto al Campidoglio, «è stato un giorno molto brutto per l’America». E che Trump «passerà alla storia con la sua parte di colpa» (Graham ha poi ripetuto che per lui l’impeachment di un ex presidente è incostituzionale, e che bisognerebbe «move on», voltare pagina lasciando perdere il tentato golpe).
I nuovi sondaggi
Il tentato golpe, i 400 mila morti di Covid, i settecento scandali trumpiani che nessuno ricorda bene perché sono troppi, hanno spostato qualche punto percentuale nei sondaggi. Poco più di un anno fa, ai tempi del primo impeachment (pressioni di Trump sull’Ucraina per far investigare Hunter Biden e suo padre), solo il 48 per cento degli americani intervistati voleva la condanna del presidente. Questa volta – sondaggio Abc-Ipsos – sono il 56 per cento. Al solito, la chiedono nove democratici su dieci, mentre otto su repubblicani su dieci sono contrari.
Il grande vecchio partito di Qanon
Il soprannome “GOPQ”, Grand Old Party Qanon è stato lanciato da Chris Cuomo nel suo Cuomo Prime Time su Cnn. Cuomo ha notato che nonostante «Trump sia nello specchietto retrovisore, i problemi non sono alle nostre spalle. Quel tizio non ci ha mandato a fondo da solo. E ora lo vediamo in questo GOPQ nuovo di zecca, più solidale con una bugiarda pazza che augura la morte ai leader democratici che a un membro della sua stessa leadership che ha avuto il coraggio di dire la verità su Trump».
La mentitrice diversamente equilibrata di cui parla Cuomo è Marjorie Taylor Greene, deputata in quota Qanon. I democratici hanno votato per tenerla fuori dalle commissioni per motivi vari e gravi; i repubblicani, su indicazione del minority leader Kevin McCarthy che ha negato di sapere cos’è Qanon, hanno votato contro, tutti tranne undici.
Negli stessi giorni, 145 deputati repubblicani contro 61 hanno votato per mantenere Liz Cheney nella direzione del gruppo. I trumpiani avevano chiesto la sua rimozione per aver votato per l’impeachment, il voto segreto lo ha impedito. Ora Cheney è stata censurata dal partito in Wyoming, ma ha detto che andrà avanti (nel surreale GOPQ del 2021, la prima figlia di Dick Cheney, cattivissima nella vita e nel film Vice di Adam McKay, sta diventando una specie di Ferruccio Parri; intanto i repubblicani dell’Arizona hanno censurato Cindy McCain, quelli del Nebraska vogliono censurare Ben Sasse, peraltro autore del libro Why We Hate Each Other, perché ci odiamo).
I rischi del processo
I democratici e alcuni repubblicani (dipende dal grado di anonimato) accusano Trump di aver incitato i rivoltosi a «combattere come dannati» per rovesciare il risultato elettorale, mandandoli a Capitol Hill. Gli avvocati di Trump invocano la libertà di parola. Chi segue il processo si preoccupa. Perché, scrive Jeannie Suk Gersen sul New Yorker, «otterremo il peggio dei due mondi: un impeachment che infiamma metà del paese e non porta vendetta all’altra metà. Data l’importanza di una condanna delle azioni distruttive di Trump, il messaggio mandato da un’assoluzione potrebbe essere peggiore dell’assenza di un processo. In più, il risultato potrebbe complicare lo sforzo degli inquirenti di investigare e incriminare Trump per incitazione all’insurrezione. Anche quelli tra noi che hanno appoggiato l’impeachment di Trump per la sua condotta catastroficamente pericolosa a gennaio potrebbero ragionevolmente provare terrore per le conseguenze del suo processo a febbraio» (e ieri gli avvocati di Trump hanno molto criticato l’impeachment, e nella memoria difensiva hanno detto che il loro assistito ha usato «la parola “combattere” in senso figurativo»).
Intanto, i Trump
Secondo la Cnn, un Trump fuori di testa ha passato gli ultimi giorni arrabbiandosi per quello che considera un tradimento di McCarthy, per non aver cacciato Liz Cheney. Mentre ieri il primogenito Don junior ha annunciato un viaggio per attaccarla: «Ho sentito che il Wyoming è bellissimo nella stagione delle primarie» (anche Don junior cerca uno stato dove candidarsi; il Wyoming è molto repubblicano e ha solo 578 mila abitanti, quindi è economico in campagna elettorale).