Great Old ManLa morte di George Shultz e la deriva fanatica del Partito Repubblicano americano

Poche altre persone incarnavano il modello di competente tecnocratico come l’ex Segretario di Stato di Reagan. Ora deputati come Liz Cheney e Adam Kinzinger sono costretti a combattere contro una base trumpista che vede come nemici i propri vicini di casa che votano democratico invece dei sovietici o i terroristi islamici

LaPresse

C’era una volta il partito repubblicano tradizionale. Quello che nell’immaginario comune rappresentava un mix perfetto di business, conservatorismo fiscale e religioso e la concezione di un’America con un ruolo muscolare sulla scena mondiale. Una formazione politica che sposava le ambizioni di un ceto di professionisti che prosperava con l’economia di guerra legata al conflitto con l’Unione Sovietica: ingegneri, scienziati, medici. Ma anche imprenditori e manager che chiedevano una fiscalità più leggera per far crescere l’economia. Questo modello, oltre alle luci, aveva molte criticità, ma fino all’elezione di Donald Trump ha sempre tenuto alle qualifiche e alla competenza dei suoi esponenti, tenendo sempre lontano dalle stanze dei bottoni i pazzoidi e gli estremisti (escludendo un primo cedimento con la nomina di Sarah Palin nel ticket presidenziale del 2008).

Poche altre persone incarnavano questo modello di competenza tecnocratico come George Shultz, scomparso domenica 6 febbraio all’età di cento anni: newyorchese di nascita con un solido background accademico (laurea a Princeton e dottorato al MIT in economia industriale) accompagnato da un’esperienza da veterano nella Seconda Guerra Mondiale e vicino alle posizioni della Scuola di Chicago di Milton Friedman.

Per Richard Nixon era un perfetto candidato come Segretario al Lavoro per superare le rigidità del mercato imposte dal consenso sulla gestione mista dell’economia derivata dagli anni del New Deal, sempre meno apprezzata dalle associazioni imprenditoriali come la National Association of Manufacturers e la U.S. Chamber of Commerce. Così nel 1969 applica la sua concezione, già studiata in accademia, di lasciare libertà di contrattazione tra sindacati e imprenditori per risolvere le loro contese senza bisogno dell’intervento federale, ma non solo questo. Applicò anche l’assunzione mirata di dipendenti appartenenti alle varie minoranze etniche, uno dei primi provvedimenti inclusivi nel governo federale. Anche nelle altre due posizioni ricoperte durante la presidenza Nixon, quella di direttore dell’Ufficio del Budget e di Segretario al Tesoro, mantenne la linea di un liberismo temperato ma inclusivo.

Nel 1982 venne poi chiamato da Ronald Reagan a ricoprire la carica di segretario di Stato, in un periodo di alta tensione con il blocco sovietico. Fu uno degli artefici sia del progetto di difesa missilistica spaziale, lo Strategic Defense Initiative meglio conosciuto come Star Wars che non fu mai pienamente realizzabile ma mise in crisi l’orso russo che pian piano, sotto la guida del segretario generale Michail Gorbaciov, si convinse a trattare e a firmare il trattato per l’eliminazione delle testate nucleari a medio e lungo raggio l’8 dicembre 1987. Trattato che Trump ha stracciato con un pretesto come “la Russia non sta facendo abbastanza”, senza dar seguito a una nuova iniziativa diplomatica.

Dopo aver lasciato il governo con la fine dell’amministrazione Reagan, assunse due posizioni eterodosse rispetto a quello che era il mainstream repubblicano: contro il cambiamento climatico, difendendo l’introduzione di una tassa sulle emissioni, ma anche contro la guerra alla droga lanciata da Nixon, grazie alla quale nel 1989 partecipò anche in Italia a iniziative antiproibizioniste con il leader radicale Marco Pannella, quando disse la famosa frase «Ha fatto più danni la lotta alla droga dell’abuso di droghe in sé».

Ma è anche sullo stile che Shultz marca una differenza con il partito attuale: l’uso del silenzio strategico contrapposto alla comunicazione tambureggiante sia sui social che sui media tradizionali. Anche perché chi ricorda di appartenere a un partito che ha sempre fatto del merito e del rispetto di limiti costituzionali rigorosi si trova a combattere contro una base che invece ha preferito sposare la visione divisiva dell’ex presidente Donald Trump, dove i nemici principali sono i propri vicini di casa che votano democratico e non i sovietici o i terroristi islamici.

Per questo motivo in questi giorni deputati come Liz Cheney e Adam Kinzinger sono sotto attacco dalle loro stesse organizzazioni partitiche che lo scorso agosto hanno deciso di sostituire la tradizionale piattaforma programmatica per le elezioni con la sconcertante frase «abbiamo una grande fiducia nel presidente Trump». Come ha giustamente ricordato il senatore del Nebraska Ben Sasse, uno dei più conservatori in materia di diritti riproduttivi ed economia, «il partito sta venendo sostituito dal culto di uno solo tizio».

Senza andare alle origini lincolniane, come ricordato dalla deputata Cheney, che ha affrontato con grande coraggio la maggior parte dei suoi elettori e dei suoi colleghi alla Camera dicendo loro la verità e votando per la colpevolezza dell’ex presidente. Ma basta tornare ai tempi di Shultz e di Reagan, dove un segretario di Stato non temeva di contraddire apertamente il suo presidente sulla necessità di non aiutare i contras antisandinisti in Nicaragua per non aiutare indirettamente anche il narcotraffico. Quel tipo di repubblicano è oggi in minoranza. Anche per questo il partito sta perdendo il consenso di quelle aree suburbane che avevano costruito la propria spina dorsale negli anni ’80. E rischiano di eroderne gradualmente sia la credibilità che il consenso in un gorgo di codardia e servilismo verso il peggior presidente della storia americana.

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