A più di tre anni dall’annuncio, il primo febbraio in Cina è partito il mercato nazionale del carbonio con cui Pechino punta a ridurre le emissioni di CO2 dei settori industriali più inquinanti. È un sistema analogo all’Ets europeo (Emissions Trading Scheme), attraverso il quale le aziende saranno obbligate a pagare in funzione delle emissioni di biossido di carbonio rilasciate nell’atmosfera: chi inquina oltre il limite consentito deve acquistare crediti di CO2 sul mercato dalle aziende più virtuose.
Nel tentativo di costruire un sistema di scambi delle emissioni nazionale, dal 2011 il Paese sta sperimentando lo scambio di emissioni a livello regionale, coprendo sette province e città tra cui Pechino, Shanghai e il Guangdong. I programmi pilota hanno spinto le principali aziende e strutture inquinanti a ridurre significativamente le loro emissioni nel corso degli anni.
Questo schema include 2.267 centrali di produzione di energia, che in totale emettono circa 26.000 tonnellate/anno di anidride carbonica (il 40 per cento delle emissioni totali). In seguito il mercato verrà allargato alle imprese che producono un minimo di 24mila tonnellate di carbonio equivalente all’anno. Il meccanismo, spiega l’agenzia cinese Xinhua, sarà esteso gradualmente ad altri comparti industriali come cementifici, acciaierie, stabilimenti petrolchimici, cartiere e così via. «Per la prima volta la responsabilità di controllare le emissioni di gas serra a livello nazionale é consolidata sull’impresa», recita un comunicato diffuso dal Ministero dell’Ecologia e dell’Ambiente di Pechino, che sovrintenderà al sistema. Sempre secondo il Ministero, l’Ets cinese aumenterà la liquidità complessiva rispetto agli Ets locali e ridurrà i costi per i partecipanti al mercato.
La Cina punta a raggiungere la carbon neutrality, l’azzeramento delle emissioni nette di CO2, entro il 2060. Secondo i dati ufficiali cinesi – di cui in Occidente spesso si contesta la trasparenza – le emissioni di CO2 per unità di Pil sono diminuite del 48 per cento rispetto al 2005. Anche la media dei giorni con una buona qualità dell’aria si sarebbe alzata. Eppure ad oggi il 60 per cento della produzione cinese di energia è ancora legata al carbone, la fonte fossile in assoluto più nociva in termini di emissioni climalteranti. La Cina ha emesso da sola, nel 2019, il 29 per cento dei gas ad effetto serra rilasciati nell’atmosfera in tutto il mondo. Pari a 14 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2, che rende la Repubblica Popolare ancora prima al mondo per emissioni di diossido di carbonio, seguita dagli Stati Uniti.
Inoltre, la crescita economica cinese degli ultimi 40 anni ha provocato seri danni all’ambiente, tra cui deforestazione, desertificazione, erosione del suolo e inquinamento dei fiumi. La Cina è abitata dal 22 per cento della popolazione mondiale ma dispone solo del 7 per cento delle terre coltivabili del pianeta. In più, il 40 per cento di quelle della Repubblica Popolare è degradato. A ciò si aggiunga che nel 2016, il ministero delle Risorse idriche cinese ha ammesso che l’80 per cento dell’acqua nel sottosuolo del paese è inquinato.
Il mercato della CO2 dovrà fungere quindi da deterrente. Si tratta di una novità che, teoricamente, potrebbe modificare profondamente i metodi di produzione del colosso economico asiatico. Teoricamente, perché tutto dipenderà dall’efficacia di tale sistema di scambio delle emissioni. Lo stesso Ets europeo, infatti, a lungo è stato criticato dalle organizzazioni non governative poiché i costi dei “diritti ad inquinare” risultavano irrisori.
Anche in Cina il prezzo di partenza della CO2 è molto basso: si parla di circa 50 yuan, quindi intorno ai 6 euro per tonnellata di CO2, mentre sull’ETS europeo il prezzo ha toccato 33 euro/ton all’inizio del 2021. Molto basse sono anche le penalità che devono pagare le industrie che sforano i tetti consentiti di CO2.