L’insabbiamentoll sogno (im)possibile della Grande Muraglia Verde in Africa

Il piano creato nel 2007 per impedire il progresso della desertificazione dal Sahara è stato funestato da ritardi e complicazioni. Adesso il presidente francese Emmanuel Macron ha deciso di rilanciarlo con altri 12 miliardi di euro. Ma per farlo serve una macchina organizzativa efficace

da Pixabay

Un’enorme distesa di alberi e piante che si snoda lungo 7.700 chilometri, è larga 15 e copre circa 100 milioni di ettari, correndo dal Senegal fino a Gibuti.

Nella metafora, è una muraglia verde (ispirata, come concetto, alla Muraglia cinese) e nella realtà un progetto mastodontico che mira a fermare l’avanzamento del Sahara, invertire il processo di desertificazione dell’area, sequestrare circa 250 milioni di tonnellate di CO2 e, nel frattempo, creare 10 milioni di posti di lavoro, con grandi opportunità di sviluppo per tutte le zone che attraversa.

I Paesi interessati sono una ventina: nel tempo, ai primi 11 (Gambia, Mauritania, Mali, Niger, Nigeria, Ciad, Sudan, Etiopia ed Eritrea, Senegal e Gibuti) se ne sono aggiunti altri 9 (Algeria, Burkina Faso, Benin, Camerun, Egitto, Libia, Capo Verde, Somalia e Tunisia), ma gli investitori sono ancora di più.

Secondo quanto dichiarato dal presidente francese Emmanuel Macron a metà gennaio in occasione dell’One Planet Summit, la Francia e gli altri soggetti coinvolti sono pronti a versare 12 miliardi di euro per la sua realizzazione.

O meglio, per il suo completamento. Perché l’idea della Grande Muraglia Verde non è una novità: avanzata per la prima volta negli anni ’50 dall’ecologista e biologo Richard St. Barbe Baker, fu ripresa intorno agli anni ’70, quando i segni della desertificazione divennero evidenti.

Dopo una serie di discussioni, il progetto generale è stato lanciato in via ufficiale dall’Unione Africana nel 2007. Il suo termine è previsto nel 2030, ma al momento appare irraggiungibile: negli ultimi 15 anni ci sono stati pochi progressi e molti problemi.

Secondo i dati della Convenzione Onu per la lotta alla desertificazione, dal 2011 al 2019 sono stati recuperati solo 20 milioni di ettari (e sulla qualità delle piante impiegate non si sa nulla). In mezzo ci sono stati problemi burocratici, organizzativi e, in certe aree, anche di sicurezza. Per questo, insieme ai fondi promessi da Macron, sarà necessaria anche una revisione generale di tutto il piano.

Come spiega questo articolo di Le Grand Continent, il primo punto riguarda proprio la sua concezione. La muraglia di alberi che ferma la desertificazione, si è capito con il tempo, era una semplificazione eccessiva. L’inaridimento dei terreni non dipende solo da fattori climatici, che in alcuni casi sono anche meno influenti di quanto si pensi, bensì anche dall’azione su più livelli dell’essere umano (deforestazione, creazione di città e terreni agricoli). I territori compresi in questa striscia di circa 8mila chilometri sono variegati, per clima e composizione, e richiedono forme di interventi specifici e adatti.

Il grande piano di piantare alberi si è trasformato, insomma, in un insieme di iniziative di recupero e rimessa a nuovo dei terreni che rispetti, più o meno, la linea Senegal-Gibuti indicata all’inizio. Come è evidente, è diventato più complicato: una cosa è gestire una grande opera di piantatura, anche con dimensioni titaniche, un’altra è organizzare un mosaico di programmi ambientali, di recupero del verde e di miglioramento del territorio.

Il secondo punto viene di conseguenza. La governance. Come dimostra il rapporto Onu, nel corso degli anni all’iniziativa è mancato sostegno politico dall’alto e i ministeri dell’ambiente dei rispettivi Paesi hanno evidenziato un peso molto scarso, sia a livello nazionale che internazionale. Nessun coordinamento e, peggio ancora, nessun organismo di controllo. Perché il piano possa procedere è necessario rivedere la sua organizzazione da capo.

Lo ha riconosciuto lo stesso Macron, che ha avanzato l’idea di una Segreteria apposita, che agisca sotto il controllo delle Nazioni Unite e che prenda il posto della Agenzia Panafricana della Grande Muraglia, cercando al tempo stesso di non inimicarsi i soggetti istituzionali coinvolti.

Compito delicato: oltre a non urtare sensibilità e aspettative, dovrà raggiungere i ministeri più influenti (ad esempio quelli dell’agricoltura, più che quelli dell’ambiente) e assicurarsi azioni più spedite.

Gli interventi devono essere adeguati alle capacità economiche e tecnologiche dei soggetti coinvolti, che possono variare. Tra le proposte c’è l’impiego di waterbox, dispositivi in plastica, riempiti d’acqua e nei quali viene sistemata una pianta: è una tecnologia semplice che permette di evitare sprechi idrici e garantire la crescita dell’albero. Ma si pensa anche di impiegare la piantatura attraverso i droni (finora allo stato sperimentale ma che promette risultati incoraggiante).

Anche sul piano finanziario è possibile tentare strade nuove. Quelle dei cosiddetti climate impact bond, per esempio. Forme di contratti che mirano allo sviluppo di progetti di interesse ambientale in cui il pagamento viene corrisposto solo all’avvenuta esecuzione di quanto stabilito.

Il loro valore di impatto sarebbe stabilito in anticipo, da parte di agenzie internazionali od Ong, in modo da spingere i singoli Paesi a impegnarsi in attività di reale rilievo ecologico.

Il tutto dovrà essere accompagnato da una costante attività di monitoraggio, sia per le iniziative sia per i risultati. Andranno visionate, nel tempo, le immagini satellitari insieme a controlli più puntuali sul territorio, che mettano insieme dati e risultati, quantità e qualità.

Un lavoro impegnativo che, visti i ritmi di crescita delle piante, può durare anche più di un decennio. Al momento i dati sono pochi, incompleti e mal strutturati. Non si esclude nemmeno che dei 20 milioni di ettari piantati qualcuno sia già scomparso.

L’importante è che non spariscano, fagocitati dall’ondata del deserto e dalla corruzione, anche i 12 miliardi che saranno messi sul piatto.

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