Non è più la guerra la prosecuzione della politica con altri mezzi, bensì la diplomazia culturale. Ambito prezioso: vanta una tradizione importante e vede sviluppi promettenti, nonostante sia poco studiato.
Il libro di Gaetano Castellini Curiel è un primo passo per colmare una lacuna. “Soft Power e l’arte della diplomazia culturale” (Le Lettere) è un raffinato excursus storico e geografico in cui indaga come «il linguaggio universale della cultura e delle arti» si sia rivelato «sempre più decisivo nella costruzione sia della reputazione di un Paese che dei rapporti internazionali». È un terreno per le relazioni di politica estera e un’arma per il soft power delle nazioni.
«La diplomazia culturale è prima di tutto questo: un’arte che aiuta gli uomini a superare divisioni, tensioni politiche e pregiudizi, facendoli incontrare su un terreno che trascende i confini fisici e culturali, ove il dialogo e l’ascolto possono, finalmente, rifiorire».
Cosa preziosa, «in un panorama politico internazionale caratterizzato da posizioni protezionistiche, pulsioni sovraniste e orientamenti nazionalisti».
La ricerca di punti di convergenza sovranazionale ha mille strade. Passa dalla politica museale (come fanno gli Stati del Golfo) e arriva alla promozione di band e cantanti capaci di raggiungere giovani in tutto il mondo (come fa la Corea del Sud).
Ma può anche avere applicazioni più puntuali, come il caso dello scambio di opere d’arte tra Iran e Stati Uniti del 1994: il regime degli ayatollah, per avere in patria il manoscritto Shahnameh Tahmasbi, cedette “Woman III” di De Kooning, dipinto del resto impossibile da esporre per le rigide regole in merito alle arti visive.
In linea di massima, ogni Paese cerca di costruire una nuova carta da visita diplomatica, promuovendo la propria immagine, diffondendo (o cercando di diffondere) un’influenza sul resto del mondo e tentando di diventare attrattivo.
È un atteggiamento che ha trovato una nuova spinta soprattutto «con la Guerra Fredda», considerata dagli studiosi (che, va ricordato, sono ancora pochi) la «Golden Age» della diplomazia culturale. Fu in quel periodo che «diventò una vera e propria arma, sottile e potente, attraverso cui spartirsi un mondo diviso tra due sfere di influenza».
A un’Unione Sovietica che diffondeva versione favoleggiate del proprio benessere, associate ad accuse di avidità e arretratezza rivolte ai rivali americani, gli Stati Uniti risposero con «le riviste, da quelle scientifiche alle riviste di letteratura, dalle riviste musicali a quelle sul cinema, tutte quante misero in mostra rappresentazioni positive dello stile di vita americano».
Ma non solo: si batté molto «sul jazz», che divenne vero e proprio simbolo del mondo americano, insieme all’espressionismo astratto e «alle iniziative dell’USIA, Agenzia di informazione degli Stati Uniti, esistita fino al 1999 e dedicata alla diplomazia pubblica.
Un braccio di ferro fatto di film, moda, idee e immagine. Che dopo la fine della Guerra Fredda trovò altre forme (la più evidente: il basket della NBA, che in Cina è diventato una vera e propria ossessione).
Proprio Pechino, cui è dedicato un capitolo del libro, ha messo in atto una mastodontica attività di diplomazia culturale che passa attraverso diversi canali.
C’è la promozione della Via della Seta, che aggiunge alle ambizioni commerciali e politiche anche il coté culturale, promuovendo scambi con i Paesi inclusi nel piano (e tralasciando quelli esclusi). C’è la crescita nell’ambito artistico, la promozione di mostre e progetti di partenariato con i musei di tutto il mondo, la diffusione degli Istituti Confucio (con le polemiche al seguito) e, grande classico, la diplomazia del panda. Espediente efficace dai tempi della Guerra Fredda che conosce, sotto Xi JinPing, una nuova vitalità (solo che, adesso, i panda non vengono più donati ma «prestati»).
Ogni Paese ha costruito una piattaforma di soft power, sperimentando un’azione diplomatica composta da esportazione di prodotti culturali e alimentari: il Giappone ha gli anime, per esempio, ma anche il sushi. E l’india, oltre alla «yoga diplomacy» ha da tempo insistito sulla diffusione dei propri piatti: «Secondo la Food Standards Agency britannica, l’industria alimentare indiana nel Regno Unito comprende oltre ottomila cinquecento ristoranti indiani (di cui tremilacinquecento nella sola Londra), per un valore complessivo pari a 3,2 miliardi di sterline».
Interpretare questi movimenti culturali, all’apparenza inoffensivi se non proprio decorativi, significa secondo Castellini comprendere le nuove dinamiche diplomatiche globali. Ogni Paese canta se stesso, ma lo fa a modo suo e con i propri scopi.
Per cui se Mosca («che ha compreso relativamente tardi l’importanza del soft power nelle relazioni internazionali» e ne ha una concezione aggressiva) è costretta a puntare sulla celebrazione delle doti virili (e militari) del proprio presidente, agli Stati Uniti dell’amministrazione Biden converrà, piuttosto, «fare leva in particolare sulla figura della stessa Harris».
In lei coesiste l’empatia, la femminilità, l’immagine dell’empowerment e della multirazzialità. Un simbolo che funziona già e che può venire impiegato in altre battaglie.