«Ci sono 5,2 trilioni di particelle che galleggiano sulla superficie degli oceani di cui 250 miliardi solo nel Mediterraneo», ha spiegato a Linkiesta l’oceanografo francese François Galgani. Ma il destino finale della quasi totalità del marine litter non è il pelo dell’acqua bensì i depositi di sedimenti marini, dove si accumula oltre il 95% dei rifiuti.
Il caso del Mediterraneo
Il Mediterraneo è considerato uno dei siti al mondo con la più alta densità di marine litter. I perché sono diversi: si tratta di un mare semichiuso con grandi concentrazioni urbane e industriali lungo le sue coste (320 milioni di abitanti). È interessato da intenso traffico marittimo (il 30% di quello mondiale) e da un limitato scambio d’acqua attraverso lo Stretto di Gibilterra. Inoltre, costituisce la prima destinazione turistica con oltre 300mila turisti l’anno ma anche il sito dove sfociano grandi fiumi come il Po e il Nilo.
«Per tali motivi – spiega Galgani – è in questo bacino che abbiamo rilevato le più alte concentrazioni di rifiuti, osservando più di 1 milione di detriti /km2 in alcune zone di mare profondo». Non solo macrolitter (rifiuti di grandi dimensioni) ma anche microplastiche.
«Le concentrazioni più importanti si trovano nei canyon (tunnel naturali sott’acqua) di fronte alle grandi città come Barcellona, Genova, Napoli ma anche davanti la Costa Azzurra e lo stretto di Messina. Qui i detriti sono condotti sui fondali dalle correnti e si accumulano dove la circolazione marina è più bassa e il fondo piatto: è questo il motivo per il quale ad oggi sono presenti aree ad alto accumulo come quella dello stretto di Messina». Quest’ultima rappresenta uno dei siti più inquinati ma, come spiega Galgani, non si tratta di un caso isolato, «abbiamo la stessa situazione nei canyon francesi al largo di Nizza e Marsiglia», né di un problema che riguarda esclusivamente il Mediterraneo, come dimostra uno studio sul marine litter nel nord del Mar cinese meridionale.
Lontani dagli occhi, lontani dal cuore
«I rifiuti sulle spiagge aumentano la percezione della gravità di questo tipo di inquinamento rispetto al fondo marino che, anche a breve distanze dalla riva, rimane lontano dai nostri occhi», si legge nella revisione scientifica The quest for seafloor macrolitter pubblicata su Environmental Research Letters, che ha visto la partecipazione di Galgani. «Studi sulle aree di accumulo bentonico (cioè dei fondali) supportano l’ipotesi che il fondale marino rappresenti l’ultima destinazione di tutti i materiali dispersi in acqua, a meno che non vengano intercettati dalle spiagge». E la plastica costituisce la tipologia di rifiuto più presente, tanto sui fondali (62%) quanto sulle spiagge (75%-84%). Tuttavia, la quasi totalità di questo tipo di marine litter attualmente presente negli oceani non è ancora stata rintracciata: la gran parte è più pesante dell’acqua di mare, tendendo così ad affondare e scomparire negli abissi come fa anche la sezione di rifiuti più leggera dopo essere stata sottoposta a processi di degradazione (ad esempio l’azione del sale o dei raggi solari). Meccanismi che invece l’ambiente dei fondali rallenta, grazie all’assenza di luce, alla scarsità di ossigeno e una temperatura bassa e costante, garantendo lunga vita al marine litter.
«I rifiuti del fondo marino possono danneggiare gli organismi acquatici di tutte le dimensioni per intrappolamento, soffocamento e anche per ingestione – si legge nello studio – Sebbene siano state condotte molte analisi, i percorsi, la distribuzione e la reale portata del danno dei rifiuti sul biota (il complesso degli organismi animali e vegetali) sono in gran parte sconosciuti». È invece noto che, a livello globale, almeno 693 specie marine interagiscono con i rifiuti marini. Il 17% di queste è incluso nella Lista Rossa IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura)
Da dove arrivano questi rifiuti
Questo problema ha più origini: l’inquinamento prodotto dai centri urbani, il comodo trasporto garantito dai grandi corsi d’acqua e tutte le attività legate alla pesca. A influenzare la distribuzione del marine litter sono anche i processi oceanografici e la presenza di canyon sottomarini, dove i rifiuti si accumulano con maggiore facilità, così come gli eventi meteorologici estremi come forti piogge, inondazioni di fiumi, straripamento di acque reflue, tempeste costiere, uragani e tsunami, che possono trasportare grandi quantità di detriti verso le spiagge e le acque costiere per poi disperderle nel mare e farle depositare sui fondali.
Purtroppo, come spiega Galgani, ad oggi non esistono misure di gestione specifiche per i rifiuti marini. «Le operazioni di pulizia, quando non riguardano acque poco profonde e molto costiere, sono troppo costose e difficili. Per affrontare al meglio questo problema è necessario favorire misure preventive e limitare gli apporti di rifiuti dalla terra».
Buone pratiche, buoni esempi
Se è vero che non disponiamo ancora di una soluzione definitiva per risolvere il problema del marine litter è altrettanto vero che, come suggerisce l’oceanografo francese, ci sono buone pratiche che potremmo seguire. Ad esempio, investire maggiormente sull’istruzione e sull’informazione riguardo questi temi, sostenere le attività di riciclo e l’utilizzo di nuovi materiali che si degradano più velocemente vietando l’impiego di plastiche monouso. Ma anche migliorare la gestione delle acque reflue e prevenire le perdite inquinanti delle navi.
Infine, a proposito di buoni esempi, dal 2016 è attiva in Europa una rete di osservazioni e dati, la EMODnet Chemistry, che raccoglie ed armonizza tutte le informazioni sui rifiuti marini censiti dagli enti di ricerca, dalle agenzie, dai cittadini e dalle organizzazioni ambientaliste sulle spiagge, sul fondo del mare o come microparticelle sulla superficie del mare e nei sedimenti. Si tratta di un progetto importante perché la condivisione di conoscenze su scala mondiale può favorire una maggiore consapevolezza dell’enorme problema che abbiano davanti ai nostri occhi. Una goccia di speranza in un mare di rifiuti.