L’ultimo libro di Nicola Lagioia, “La città dei vivi”, racconta dettagliatamente, com’è ormai noto, l’omicidio di Luca Varani, uno dei casi di cronaca che hanno suscitato maggiore attenzione negli ultimi anni. È un libro che riesce a compiere quel raro miracolo della letteratura per cui sai bene come una storia andrà a finire eppure ti ritrovi a leggere pagina dopo pagina, freneticamente, sperando che la storia possa andare a finire in un altro modo, e che quel piano inclinato possa, per miracolo, raddrizzarsi e riportare la realtà in un’altra direzione. I protagonisti del libro sono, senza dubbio, quattro: la vittima, i due accusati dell’omicidio e Roma che emerge, da subito, non solo come sfondo, ma proprio come parte attiva di ciò che accade. Ed è proprio su Roma che ci siamo concentrati in questa conversazione.
Ti capita mai di uscire di notte quando c’è il coprifuoco?
È una lunga questione. Innanzitutto perché la scorsa primavera, come per molti, l’inizio della pandemia è stata una cosa incredibile. Io, tra l’altro, all’inizio ero scioccato, anche perché stavamo lavorando al Salone – nella forma che conoscevamo – e ci stavamo lavorando da un anno. E, quando Conte fece il discorso, ero col biglietto pronto per Torino, dovevo partire… E, improvvisamente, ti chiudono le frontiere… E non potevo più andare a Torino! Questa cosa mi ha proprio annichilito, ecco. Dopodiché è anche vero che, per la prima volta, sono stato a casa: non mi succedeva di dormire nel mio letto per più di 6/7 giorni di seguito da anni.
Com’è stato?
Pur nella tragedia, mi sono preso cura di me. Mi sono accorto, infatti, che non mi ero mai preso cura di me negli ultimi anni. Perché tra il Salone del libro e la preparazione e la scrittura della “Città dei vivi”, che è stata – come puoi immaginare – una cosa bella, ma molto faticosa, e anche dolorosa, erano quasi quattro anni che non restavo fermo.
E ti è piaciuto stare fermo?
Ho girato Roma più durante il lockdown duro che non adesso. Ti ricordi che non si poteva uscire, ma si poteva gettare l’immondizia? E, allora, mi succedeva – quasi come fossi in trance – che dicessi a mia moglie: «Vado a gettare l’immondizia». A mezzanotte meno un quarto. Ma poi mia moglie mi vedeva ritornare alle due. Perché vedevo Roma così vuota e cominciavo a camminare. E camminavo, camminavo. E camminando mi ritrovavo a Piazza del Popolo e dicevo: «Non la vedrò mai più (fortunatamente) così Roma, e quindi voglio vedere com’è la città deserta, come se veramente fosse immobile». Poi, anni fa, avevo scritto un racconto, “1992“, di cui ho messo una parte nella “Città dei vivi“, in cui immaginavo una Roma completamente deserta, senza più uomini, con le fontanelle che zampillavano… Quindi questa cosa l’avevo immaginata, ma vederla era completamente diverso.
E adesso?
Adesso, invece, che potrei uscire, stranamente esco molto di meno. Oggi sono andato a pranzo con degli amici, ma erano venti giorni che non uscivo di casa. Quindi è veramente bizzarro che quando non potevo fare niente vivevo la città – perfino rischiando – mentre adesso che, teoricamente, potrei andarmene in giro, non vado da nessuna parte, me ne sto chiuso in casa a lavorare al computer, con Zoom, a scrivere e a presentare il libro, e tutte queste cose qui.
Era triste la città vuota?
La cosa sconsolante è stato il centro storico di Roma. Perché – d’accordo, bellissimo – però in molte città italiane, specie le città d’arte, si è deciso, a un certo punto, che il centro storico dovesse essere appaltato ai ricchi e ai turisti. In un centro storico nessuno ci può abitare, se non sei veramente ricco – e per ricco intendo veramente ricco, non uno a cui le cose vanno benino. Io non potrei abitare nel centro storico, pur vincendo lo Strega, pur facendo il direttore del Salone del libro di Torino, anche se ne facessi dieci di queste cose non potrei abitare al centro storico.
Sono stato solo una volta in una casa in piazza Navona e ci abitava un parlamentare…
Eh, capito? Quell’ordine di grandezza, i calciatori, che ne so… Che poi i calciatori sono strani e vanno lontano dalla città. E quindi, visto che turisti non ce ne stavano e i ricchi son pochi, il centro storico era veramente malinconico. Lo vedo anche dalle librerie: le librerie del centro sono messe malissimo; invece le librerie di quartiere stanno avendo un fatturato che è anche del +10 per cento, +20 per cento nel 2020, rispetto al 2019.
Tu in che quartiere sei?
Sto all’Esquilino. E qui, come al Pigneto, a Torpignattara, a Centocelle o a Certosa, la comunità è molto forte e perciò, secondo me, la malinconia si è sentita molto di meno. Ma questo credo sia successo, in qualche modo, un po’ in tutte le città italiane.
Roma è stata unica in qualcosa anche durante la pandemia?
A me piaceva molto il fatto che, quando arrivavo a Milano, scendevo dal treno e sentivo un’energia, un dinamismo molto bello che mi piaceva, era rigenerante, era un posto quasi unico in Italia da questo punto di vista. Però a una città che vive sul dinamismo, se gli togli il dinamismo… Capisci che intendo? Cade in uno stato quasi depressivo. Sentivo molti amici di Milano che, durante il lockdown, stavano messi peggio rispetto a qua. Mentre, invece, se una città si fonda, come Roma, sull’indolenza, quando arriva qualcosa che ti obbliga all’indolenza c’è comunque un cambiamento enorme, ma minore. Certo, il problema sarà che quando sarà finito – speriamo al più presto possibile – il coronavirus, una città come Milano un’agenda di cose da fare l’avrà e, per quanto ferita, come tutti, una direzione l’avrà. Roma continuerà a non averla, temo, anche dopo che tutto questo sarà finito, perché è una città senza agenda e senza bussola. Al tempo stesso è una città troppo importante, non soltanto per l’Italia, ma anche per il mondo, per potersi inabissare definitivamente.
Lo racconti perfettamente nella “Città dei vivi” quando scrivi: «A Roma tutto si consumava, ma niente cessava di esistere».
Roma è così, è come se fosse una continua consunzione che non arriverà mai all’osso per l’importanza che ha la città. Jorge Luis Borges diceva: «Siamo tutti quanti cittadini di Roma». Lo diceva con quell’enfasi meravigliosa che è tipica dei sudamericani aristocratici nell’animo com’era lui, però è una cosa vera.
Come ti sembra ora?
Adesso è una città piena di persone tristi, tutte quante con le mascherine, perché è una città in cui si faceva molta vita notturna e questa cosa manca molto. Però è pure vero che appena c’è un raggio di sole e le possibilità della zona gialla, vedi la gente che si stende al sole, chiacchiera, parla e, quindi, mi sembra che ecco, abbia reagito, dal punto di vista dell’umore e dello spirito, abbastanza bene. Anche perché, sai, nelle città come Roma o Napoli, quelle città in cui c’è stato di tutto: la discesa dei barbari, la morte degli imperatori, il fascismo, il crollo del fascismo, il terremoto, i bombardamenti… Sono città che ce l’hanno iscritta nella memoria storica la ciclicità dei flagelli. E quindi anche questa cosa qui non viene vissuta come apocalittica, anche se è un periodo complicato e di grandi difficoltà.
Nel tuo libro si parla anche della rabbia che la città cova. Quella dov’è?
Ogni concetto, a Roma, è come se venisse tirato da due cavalli che corrono in direzioni contrarie, eppure non si strappa mai. Cioè, Roma non è una città violenta, perché se uno dovesse misurare, per così dire, la violenza con i numeri potrebbe andare a vedere il numero di omicidi all’anno che c’è a Roma e dividerli per il numero di abitanti e scoprirebbe che sono pochissimi rispetto a Parigi, a Bruxelles, a Londra… Per non parlare delle città del Nord America. Allo stesso tempo, devo dire che, paradossalmente, col coronavirus è ancora meno violenta e questo è un po’ preoccupante, perché il coronavirus dovrebbe aumentare la rabbia e invece è come se fossimo tutti quanti intorpiditi da questo punto di vista.
Sarà tutta sfogata, purtroppo, in contesti domestici.
Può essere. Ma quelle scene quotidiane che vedevi, quando gli automobilisti fra un po’ si prendevano a botte – non si prendevano quasi mai a botte ma minacciavano in continuazione di prendersi a botte – ecco quella rabbia lì, repressa, che è anche frutto di tante cose, be’ quella invece era abbastanza serpeggiante ed è nascosta. Ma quella rabbia dipende da vari elementi. Prima di tutto il fatto che la città è veramente faticosissima: Roma è la capitale che ha meno trasporto pubblico sotterraneo per metro quadro d’Europa. Quindi è una città che ti snerva: dovevo andare a registrare un podcast, mi hanno detto dov’era lo studio di registrazione e stavo rinunciando perfino ai soldi, perché era un viaggio di un’ora e mezza ad andare e un’ora e mezza a tornare, e mi sono detto: «Quasi quasi vedo se trovo qualche altra commissione più vicina e rinuncio». Quindi è una città in cui arrivi esasperato a un quarto della giornata se ti devi muovere. In più è una città che costa molto rispetto alle opportunità che offre e questa cosa crea frustrazione perenne perché ti trovi costantemente in una città più costosa rispetto alla tua capacità di guadagnare. Anche perché c’è tutta una parte parassitaria della città che campa di rendita.
Non sembri vedere grande futuro.
Roma, come diceva James Joyce di Dublino, è “il centro della paralisi”. In città c’è un cinismo secolare per cui sembra che nulla valga mai la pena di essere fatto. Se hai una missione a Roma, ti dicono: «Chi cazzo ti credi di essere? Questa è una città che esiste da 2.800 anni… Qualunque cosa potrai essere, non sarai mai nessuno rispetto alla città». Questo smonta qualunque capacità costruttiva, ma, allo stesso tempo, in questo cinismo ritrovo che ci sia anche una specie di segreta saggezza. Perché è proprio come se la Città Eterna – e questo lo dico pure nella “Città dei vivi”, che per me è stato un modo di conoscere e capire meglio qual era la città in cui vivevo da vent’anni – fosse quella più consapevole non che tutto è eterno, ma che tutto si corrompe, che tutto passa, che siamo di passaggio. Roma, da questo punto di vista, è la città del “Marziano” di Ennio Flaiano, in cui atterra un marziano e, dopo poche settimane, il marziano è uno qualunque, entra un uomo in un bar, si trova il marziano che beve e gli dice: «A Marzia’, scansate!».
Tu hai visto qualche marziano?
Qui all’Esquilino a un certo punto sono venute a vivere due star cinematografiche, Abel Ferrara e Willem Dafoe. A un certo punto Abel Ferrara ha girato un documentario sull’Esquilino, che si chiama proprio “Esquilino”, dove intervistava le persone che sono nel quartiere e intervistava anche il suo amico Willem Dafoe e domandava: «Ma come mai due americani si sono trasferiti qui a Roma, com’è vivere qui?». E Willem Dafoe dice una cosa rivelatoria, cioè: «Per noi venire qua è stato – il contrario della star americana in Italia, il contrario di Anita Ekberg – un atto di umiltà, un atto contro la nostra vanità; perché mentre a New York la gente ci riconosce per strada e ci fotografa, a Roma non ci si fila nessuno». Per me questa cosa è bellissima, perché Roma è una città in cui tu puoi completamente scomparire se vuoi, nessuno ti considera. Se io domani uscissi per Roma mettendomi, che ne so, una lampadina in testa e una coda, mi prenderebbero un po’ in giro ma poi non gliene potrebbe frega’ di meno a nessuno.
Quindi è una città che ti lascia anche solo?
In realtà, al tempo stesso, è una città in cui non ti senti mai solo. Quando sono arrivato a Roma, nel ’98, non conoscevo nessuno e quindi pensavo: «adesso mi consegnerò, legittimamente, a qualche mese di solitudine, prima di ingranare un po’». Ma dopo tre settimane non potevo restare da solo per più di due ore, tante erano le persone che nel frattempo avevo conosciuto. Spesso sono delle amicizie superficiali, perché c’è anche un elemento di superficialità da questo punto di vista, no? Quanto è profonda e quanto è superficiale la mega tavolata di Fellini a Roma, a Trastevere, dove c’erano quelli che stavano magnando la sera e passa il tram… E al tempo stesso è tutto molto conviviale, anche se è una convivialità feroce, anche violenta in un certo senso. Però non soffri la solitudine e io, paradossalmente, mi sento più al sicuro a Roma che non in qualunque altra parte del mondo.
Che intendi con “sicuro”?
Ho anche assimilato dei tratti non proprio nobilissimi della città. Perché a Roma mi sento travolto, a volte, da un sentimento di libertà che è veramente bellissimo e inebriante, ma la libertà ci mette poco a diventare tossica, perché diventa una libertà proprio dai tuoi doveri basici nei confronti di una comunità. Qui all’Esquilino, una sera, tornando dalla stazione, mi si avvicina un ragazzo – sai quelli che mettono una cosa sotto il giubbotto, che può essere una pistola, un coltello, una cosa del genere, ma in realtà non era niente, secondo me, però vabbè, c’era pure quel 10 per cento di possibilità che fosse davvero qualcosa – e mi dice: «Dammi il computer». E io gli faccio: «Guarda, il backup non l’ho fatto, il computer non te lo posso dare. Se tu provi a prendermi il computer, noi adesso ci prendiamo a mazzate, tu magari mi ammazzi, ma è capace pure che faccio io male a te, perché tu non sai quanto posso essere incazzato. Allora facciamo una cosa: io ti do 50 euro – prendo il portafoglio, lo apro – e questo è il prezzo per cui tu te ne vai senza che succeda niente». Allora lui si prende le 50 euro, fa per andarsene, ma prima di andarsene fa: «Ahò, io me ne vado, ma non è che chiami i sbirri?». E appena lui fa così, a me parte una violenza che quasi mi ci butto addosso e dico: «Ahò, ma per chi cazzo m’hai preso, pe’ n’infame?». I ruoli si erano incredibilmente invertiti! Ero io che stavo aggredendo lui. Per farti capire che sorta di giro avevo fatto dal punto di vista etico. Poi ho scritto anche un articolo su Repubblica Roma su questo aneddoto, così ho anche recuperato i 50 euro che questo mi aveva fottuto. Ma questa, per me, è la conferma che fai parte della città e che, forse, fai anche parte del problema.
Insomma, devi accettare che possa anche farti male.
Io la amo. Ma devo accettare che è come un’amante infedele: devo accettare le corna. E così che ho temporaneamente fatto pace con la città, il che non vuol dire che non mi muova, che non faccia cose per migliorarla, però la accetto pure per quello che è. Anche perché la cosa che trovo più insopportabile – e che trovo spesso in molti amici che frequento – è il non avere rispetto per la città, credendo di sapere tutto. Ma la città è troppo grande, è troppo complessa, perché qualcuno di noi ne possa avere l’interpretazione autentica. Nella “Città dei vivi” dico: scusate, questo è il modo in cui l’ho vissuta io, non ho nessuna pretesa di dire qualcosa di universale, o di oggettivo, perché la città è talmente grande che tocca delle corde diverse a seconda delle persone che la attraversano. E poi agli amici che pretendono di sapere faccio questo esempio: ci sono due persone che dall’Emilia Romagna vengono a Roma, e vedono due città completamente diverse: uno si chiama Pierpaolo Pasolini e l’altro si chiama Federico Fellini; uno gira “La dolce vita” e uno gira “Accattone”; girano geograficamente nello stesso luogo, ma sono due luoghi completamente diversi. Quindi accettate questa cosa qua.
Tu hai parlato di consunzione. Ma la consunzione fa pensare anche al fatto che una cosa possa solo peggiorare.
Un’amministrazione cittadina capace, secondo me, non risolve i problemi della città, ma qualche cosa la cambierebbe. Il problema è che sembra che questa rogna non se la voglia prendere nessuno. Non c’è più un Rutelli o un Veltroni. Innanzitutto perché non esiste più un partito progressista forte com’era quello fra la fine degli anni Novanta e l’inizio del 2000. Uno capace è l’urbanista Walter Tocci, ma non si candida – quelli bravi non si candidano, non perché siano pavidi, ma perché si rendono conto di non avere dietro di sé un apparato o una macchina politica in grado di sostenerli. Credo che Roma abbia, poi, un problema enorme proprio di politica cittadina. I principali partiti politici non sono riusciti a fare un piano per Roma, anzi sembra che tendano a saltare il turno, come a dire «meglio che non esprimiamo un candidato forte che si va a incasinare».
Allo stesso tempo, il Pd nazionale non è mai stato romano come adesso. Quindi avrebbero possibilità di esprimere qualcosa di forte proprio adesso.
Tu pensa, nel Pd sono tanto incazzati con la Raggi ed effettivamente la città non ha fatto passi avanti, mi sembra evidente, però c’era un sindaco della sinistra, Ignazio Marino, e l’hanno fatto fuori loro. Adesso dovrebbero semplicemente far venire fuori un candidato forte, un candidato che si faccia un bel giro della città, e con un progetto anche.
Una delle frasi chiavi di Suburra è: «È stata Roma». Tu ci credi alla responsabilità della città?
No, perché se dovessimo crederci nel male, dovrebbe valere, allora, anche nel bene. Penso che Roma abbia informato i personaggi del mio libro, ma non che abbia responsabilità sui loro comportamenti. Quello che trovo, invece, unico in Roma è la sua verticalità. Roma ha una storia che è parte dell’inconscio di chi ci vive, culture e identità, fino al paganesimo, che sono fortemente presenti, anche se in profondità. Carlo Levi diceva che di notte, a Roma, «pare di sentire ruggire i leoni». È una frase che spiega bene come a Roma i vivi e i morti siedono alla stessa tavola.