Hai mai fatto una follia nella vita? «Un giorno mi sono lanciato da un’auto in corsa». Difficile immaginarsi la scena il cui protagonista sia Nicola Lagioia, lo scrittore premio Strega con “La Ferocia” e direttore del Salone del libro di Torino. Con questo curriculum e la montatura di occhiali anni Cinquanta dalla quale non si separa mai, te lo aspetti, infatti, come l’apparenza ti inviterebbe a giudicarlo: un nerd. In parte lo è, certo, lo confesserà lui stesso fra le righe di questa intervista, tra la passione per i fumetti e avendo sempre una citazione tratta da buone letture per avvalorare le proprie tesi, ma non solo: sotto le ceneri dell’innocenza perduta – tema ricorrente dei suoi romanzi – sembra covare una follia latente che, forse, un giorno esploderà pubblicamente o, più probabilmente, continuerà a trovare sfogo nei suoi libri.
Da qualche settimana – dopo ben 16 anni di “guerra fredda” – è persino tornato il sereno con un vecchio amico come Massimiliano Parente, anch’egli scrittore ma che le follie le esterna, eccome. Da ultima il neonato sito web, dove alle “prestazioni” a pagamento tipiche di un autore tra le quali presentazioni, comparsate tv o lettura di manoscritti, ne sono spuntate alcune decisamente inusuali: una notte d’amore e il matrimonio (non in chiesa). D’altronde, già nell’intervista a Linkiesta aveva dichiarato: «Marcel Proust? È stato il più grande scrittore prima di me».
Ne siamo certi, Lagioia non arriverà mai a tali esternazioni. Magari lo pensa, di essere il miglior scrittore vivente (e l’ambizione non è una colpa), ma ha il pudore di tenerlo per sé. Lagioia da tempo appare come uno degli intellettuali più lucidi nell’analizzare le trasformazioni in corso. Da appendere in ogni redazione, per esempio, la lectio magistralis che tenne nel 2018 al Festival del giornalismo di Urbino. E se l’aver letto caterve di libri aiuta, per non prendersi troppo sul serio – quindi risultando terribilmente incisivo – vengono in soccorso le origini: un tipico paesone italiano della provincia di Bari dal quale proviene un altro fustigatore del politicamente corretto come Luca Medici, alias Checco Zalone, che ci abita ancora. Perché alla fine, «puoi diventare famoso e vincere un Oscar, ma a Capurso resti sempre il figlio di Sandro Medici».
Vorrei partire da una circostanza che mi stupisce sempre: durante le feste le librerie sono tutte piene, ma poi le statistiche sulla lettura sono drasticamente basse. Come te lo spieghi? I libri per gli italiani sono semplicemente un regalo per spendere poco e fare bella figura?
Un po’ in tutto il mondo è così, a Natale si regala un libro. In Italia, nel 2019, dopo parecchio tempo che non succedeva, si sono venduti più libri dell’anno precedente. Non è aumentato solo il volume d’affari, il che spesso accade solo perché gli editori alzano il prezzo di copertina, si sono proprio comprati più libri. Parliamo tuttavia di percentuali minime. Rimaniamo un paese molto fragile per ciò che riguarda la lettura. Non c’è naturalmente una sola causa, la questione è un po’ complessa.
Siamo qui apposta.
Be’, da una parte conta il modo in cui le istituzioni trattano da noi storicamente la promozione della lettura, anche solo a livello di investimenti. I paesi europei che hanno resistito meglio alla crisi sono, guarda caso, quelli dove si legge di più e dove negli ultimi anni si è investito maggiormente in cultura, formazione, e soprattutto istruzione. In Italia la percentuale del Pil destinata a queste voci è più bassa rispetto a Francia e Germania. In più, abbiamo un sistema di diffusione dei nostri autori all’estero che è pure quello storicamente un po’ ridicolo. Il Canada o l’Argentina (che pure è un paese con molti più problemi di quanti ne abbiamo noi) hanno un sistema di aiuti alle traduzioni notevole. Se spalanchi la “La versione di Barney” di Mordecai Richler nell’edizione Adelphi, per esempio, sul colophon trovi scritto: “Si ringraziano le autorità canadesi per aver contribuito alla traduzione”. Eppure, quel libro è stato scritto in inglese, una lingua che in teoria avrebbe meno bisogno di essere protetta rispetto alla nostra, vista la sua diffusione. A me dispiace proprio che ci tuteliamo così poco. Io sono tradotto in 20 paesi, sono stato fortunato, ma se penso a tutte le scrittrici e gli scrittori del nostro paese che meriterebbero di essere conosciuti all’estero, mi incazzo. Autori anche molto strani, eccentrici, che non hanno vinto necessariamente uno Strega o un Campiello. Poi, per tornare al discorso che facevamo, ci sono le librerie: sempre in Francia e Germania c’è tutto un sistema di tutele che da noi è molto più debole. In Italia una cornice normativa di sostegno davvero robusto insomma non è mai stata davvero elaborata. Capisco che in anni difficili gli investimenti di lungo periodo sono quelli che la politica rischia di pagare poi sul fronte elettorale, ma bisogna pur capire se la prospettiva è, come si dice, quella delle prossime elezioni o delle prossime generazioni.
Siamo messi così male?
L’editoria si sostiene da sola, senza alcun finanziamento pubblico, a differenza del cinema, del teatro, di certa musica, che senza aiuti pubblici difficilmente riuscirebbero a sopravvivere. L’editoria vive da sola sul mercato, non c’è assistenzialismo, il che è un bene perché gli editori sono costretti in questo modo a rinnovarsi e a innovare, cosa che molti fanno, ma questo non significa che non ci sia bisogno come dicevo di una piattaforma normativa seria per dare la spinta a tutto il comparto. Per comparto non intendo solo le case editrici. Ci sono le librerie, le biblioteche, soprattutto c’è la scuola. In Europa, per fare un esempio, esiste la figura del bibliotecario scolastico, che da noi credo sia quasi assente. È un piccolo esempio, ce ne potrebbero essere tanti altri. L’Italia è il paese di Aldo Manuzio, l’editoria ce l’abbiamo nel dna, generazione dopo generazione. Pensiamo a E/O edizioni, che ha avuto il coraggio di aprire una casa editrice negli Stati Uniti, Europa Editions, con la missione di esportare in Nord America la letteratura del vecchio continente, cosa che tra l’altro riesce a fare (Elena Ferrante ha venduto più lì che da noi, dove pure è diventata popolarissima) muovendosi bene in un mercato difficilissimo e poco cosmopolita com’è quello statunitense. Anche una piccola ma valorosa casa editrice come L’Orma, da quello che ne so, sta pensando di aprire delle filiali all’estero. Insomma, l’intraprendenza non manca, ci sono casi molto casi edificanti, però difficilmente riusciamo a fare sistema. I cinematografari, in questo, bisogna riconoscerlo, sono più bravi.
Insomma, come diceva Montanelli: «Vedo un futuro per gli italiani, non per l’Italia».
La lingua italiana è parlata da 67 milioni di madrelingua più qualche altro milione sparso in giro per il mondo, quindi niente rispetto ad altre lingue, eppure la nostra letteratura è tra le cinque o sei che ancora contano a livello globale. Ben altra forza, a livello di diffusione, ha naturalmente la letteratura in lingua inglese, francese, spagnola, ma noi siamo sempre tra quelle cinque o sei, insieme anche al tedesco e al portoghese. Quando, nel 2018, ho fatto un lungo tour come scrittore negli Stati Uniti, Elena Ferrante lì da loro era più popolare di Philip Roth, Italo Calvino più di Saul Bellow, Umberto Eco più di molti critici o studiosi di letteratura con ruoli di rilievo in Usa, e stiamo parlando di una cultura tutt’altro che esterofila. C’è poi, per quello che riguarda la nostra fragilità di lettori (popolo di artisti, di poeti, di grandi registi cinematografici, non di lettori) una questione storica che forse precede tutte le altre: l’Italia ha subito una Controriforma senza che ci sia mai stata una Riforma.
Si legge poco, ma il cinema vola. Soprattutto nel periodo natalizio appena trascorso. Ancora una volta, campione di incassi è stato il tuo compaesano Checco Zalone con Tolo Tolo. Vi conoscete?
Attenzione. I libri in Italia sviluppano un volume d’affari ben superiore al cinema. Il cinema, senza aiuti pubblici, come dicevamo, si inabisserebbe. Checco Zalone è un’eccezione. Lui abita ancora tra Capurso e Bari, credo perché così se ne può stare tranquillo. Veniamo dallo stesso paese, è vero, ma paradossalmente ci siamo conosciuti a Berlino. Quando diventò famoso ne parlai con un certo orgoglio a mio padre, lui mi rispose scrollando le spalle: «Ah, ma chi è, il figlio di Medici? Gli vendetti un monolocale qualche anno fa, a suo padre». Puoi diventare una star, sbancare i botteghini e vincere anche l’Oscar ma a Capurso rimani sempre quella roba lì: «Il figlio di Medici», «il figlio di Lagioia». Meraviglioso. Una sera, ero ospite dell’Istituto italiano di cultura a Berlino, perché era uscita La ferocia in Germania e la andavo a presentare in giro per l’Europa. A un certo punto al direttore Luigi Reitani squilla il telefono. Gli sento dire: «Sì, sì, è qui con me. Sì, sì, adesso glielo dico». Si gira verso di me e fa: «Senti, c’è Checco Zalone al telefono. Lui pure è qui a Berlino, sta promuovendo Quo vado in Germania e Austria. Adesso se ne sta a Mitte con Gennaro Nunziante a bere una cosa in un locale. Dice che siete dello stesso paese ma non vi siete mai incontrati. Se li raggiungiamo ci beviamo una cosa insieme?» «Certo», faccio io. Non appena arriviamo nel luogo dell’appuntamento, Checco si alza e fa: «Oh, Nicola, molto piacere. Ma lo sai…» «…che mio padre a tuo padre gli ha venduto un monolocale tanti anni fa?», ho completato io la frase. Poi ci siamo messi a bere e chiacchierare con lui e Gennaro Nunziante. È stato un fine serata molto piacevole.
Quanto è rimasto di Checco Zalone, dei vizi dell’uomo medio italiano, in Nicola Lagioia?
«La gente con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione», diceva Marco Pannella. Rimane anche forse la capacità di saper leggere tra le righe. Mi spiace che qualche mio amico, persone che conosco e stimo, sia caduto nella trappola del trailer sull’immigrato, pensando che fosse razzista. Bisogna avere i sensi un po’ appannati, o essere un po’ troppo esasperati, per vedere una cosa del genere. Ma c’è un errore di fondo: non è che se io, autore, racconto i peggiori vizi degli italiani, allora li sto condividendo. Tradizionalmente succedeva il contrario. Se proprio dobbiamo essere dei moralizzatori, anche se non amo affatto la funzione pedagogica nell’arte… ma se proprio vogliamo dare una funzione pedagogica a un film, pensa solo ai film di Monicelli, un genio, questa dovrebbe consistere proprio nel mettere in scena il peggio a scopo catartico: nei film di Monicelli potevamo vedere quanto facevamo schifo e al massimo ravvederci. La commedia all’italiana in questo è stata sublime, concedendosi una cattiveria autocritica che per la commedia americana (ma anche per quella francese) sarebbe stata inimmaginabile. Scambiare il peggio messo in scena con l’opinione dell’autore, o addirittura confondere le opinioni dell’attore con quelle del personaggio che interpreta, be’, significa che stai proprio cadendo in un fraintendimento gigantesco rispetto a come dovrebbe funzionare la narrativa, cinematografica o letteraria. Cioè siamo tornati agli anni Ottanta della provincia italiana più sordida e analfabetizzata di ritorno, quella della gente che guardava Dallas e odiava Larry Hagman confondendolo con JR, con la differenza che oggi queste posizioni vengono da gente che scrive moltissimo e dice di leggere. Si sta diffondendo questa febbre inquisitoria: molti oggi ritengono che giudicare sia più importante che capire. L’arte di raccontare storie, al contrario, aspira a capire, non a puntare il dito. Agli amanti dei processi dico che, al massimo, la letteratura o il cinema possono essere un’istruttoria non finalizzata a gradi di giudizio. “Di tutte le parti del corpo bisogna controllare soprattutto il dito indice”, scriveva Josif Brodskij, “perché è assetato di biasimo”.
Lo hai ribadito recentemente in un dialogo riportato su Il Giornale proprio con Massimiliano Parente, sul tema del politicamente corretto, sottolineando la divisione tra opera e biografia dell’autore. In Francia, intanto, però è scoppiato il caso pedofilia che ha investito lo scrittore Gabriel Matzneff, ora sotto inchiesta.
Non ho seguito la vicenda di Matzneff, non ho mai letto nulla di lui quindi non posso esprimere un giudizio. L’intervista concessa a Parente sul Giornale è stata di per sé motivo di un piccolo trambusto. Qualcuno ha detto che non avrei dovuto farla perché Il Giornale è Il Giornale e Parente è Parente. Ora, a parte che il moralista fa la morale agli altri e l’uomo morale la fa prima di tutto a se stesso. Chi cerca la purezza senza rendersi conto delle proprie contraddizioni fa innanzitutto un torto a se stesso come creatura complessa, scriviamo su giornali posseduti da grandi capitalisti, alimentiamo social network posseduti da miliardari che non pagano le tasse, vendono i dati da noi ceduti loro ai peggiori acquirenti, esercitano sul mondo un dominio peggiore di quanto facessero in passato Nestlé o Monsanto, e forse hanno determinato per colpa o dolo l’elezione di Donald Trump… tutto questo grazie anche a noi… come non sentirsi in una contraddizione incredibile?
E quindi?
A parte tutto questo, dicevo, se c’è un essere impuro quello è lo scrittore. Emmanuel Carrère scrive di Limonov. Antonio Franchini scrive di Dante Virgili. Cristina Campo frequentava Elémire Zolla. Hannah Harendt ebbe un rapporto profondo con Heidegger, poi se ne dissociò, poi si riconciliò. Non parliamo delle frequentazioni di Bukowski, di Genet, di Vollman, di Curzio Malaparte, dello stesso Pasolini. Chi va in cerca di purezza assoluta non trova mai una storia, e gli scrittori vanno a caccia soprattutto di quelle. Tornando all’intervista, il concetto che ho espresso mi sembra di un’elementarità disarmante. Se un criminale scrive un grande romanzo, questo non lo rende meno criminale. Al tempo stesso, il fatto di essere un criminale non toglie che abbia scritto un grande romanzo. Usare la morale, o il codice penale contro l’arte, qualcuno sarebbe tentato perfino dal codice civile, lo può fare solo chi l’arte non la ama davvero, o detesta segretamente la sua libertà, la sua potenza, la sua capacità di toccare delle corde che non sempre amiamo far risuonare in noi. Smettiamo di leggere Genet? E cosa dovremmo fare con Pasolini, bruciare tutte le sue opere perché andava a rimorchiare i ragazzini? Questo non toglie nulla alle poesie (“ho un’infinita fame d’amore / dell’amore di corpi senz’anima”, recitano tra l’altro i famosi versi), agli Scritti corsari, a film come Accattone. Oppure che facciamo, non andiamo a vedere i quadri di Caravaggio perché era un assassino? Mi sembra una questione chiara, pacifica, elementare, che solo un’epoca un po’ stupida come la nostra può fraintendere. È quasi umiliante doverlo ribadire ogni volta. Non ha torto Bret Easton Ellis, quando nel suo ultimo libro, Bianco, scrive che la nostra epoca crede di poter far a meno, non della cultura (non è che la cultura sia buona di per sé), ma dell’arte.
Per cui, come uscire da questo dedalo?
O si è dalla parte dell’arte (e dunque dalla parte di Flaubert, di Virginia Woolf, di Philip Roth, di Marilynne Robinson) oppure si è dalla parte del potere. A ogni modo, meglio ancora di Bret Easton Ellis, l’ha detto Philip Roth: «Non si scrive narrativa per affermare principî e credenze che chiunque sembra condividere, né per rassicurarci sulla giustezza dei nostri sentimenti. Il mondo della finzione ci libera dalle gabbie in cui la società rinchiude i sentimenti; una delle facoltà dell’arte è permettere tanto allo scrittore quanto al lettore di reagire all’esperienza in modi non sempre contemplabili nella quotidianità; o, se pure contemplabili, non sempre possibili, o gestibili, o legali, o consigliabili, o anche solo utili alla sopravvivenza. Possiamo anche non sapere di avere uno spettro di sentimenti e reazioni così ampio, finché non vi entriamo in contatto grazie all’operato della narrativa». Ma ciò che dà da pensare è che stiamo andando oltre.
In quale direzione?
Dopo aver affermato che la biografia degli autori (i loro errori nella vita, il loro narcisismo, le loro debolezze, i loro torti, le loro colpe) può essere usata come metro di giudizio anche per la valutazione delle loro opere, il passo ulteriore, in particolare negli Stati Uniti, e spero non arrivi anche da noi, è provare a distruggere il senso stesso del raccontare storie: cioè arrivare a credere che non sia così legittimo immaginare vite che non sono la propria. Si può arrivare per questa strada a sostenere (in realtà lo si è fatto) che un bianco non possa scrivere di afroamericani (e Faulkner?), che un aristocratico non possa scrivere di poveri (e Tolstoj?), che solo una vittima possa scrivere di condizioni vittimarie (e il caso titanico di Victor Hugo?), che un maschio non possa scrivere di una donna e dunque una donna di un maschio (e Flaubert con madame Bovary? E Emily Brontë con Heatcliff?), che un eterosessuale non possa dunque scrivere di omosessuali e così via, mandando in frantumi quello che è il principio stesso della finzione narrativa. E cioè, appunto, il riuscire a mettersi nei panni altrui. Che cos’è, altrimenti, l’esercizio di alterità di cui tanto andiamo blaterando? Certo, non si tratta di un esercizio semplice. Zadie Smith ha scritto un pezzo molto interessante su questo tema qualche tempo fa, in Italia è uscito su Internazionale, ma in generale basterebbe guardare agli ultimi 2500 anni di letteratura per afferrare il concetto. Tra l’altro, non credo avesse ragione Ernest Hemingway, non devi aver vissuto per forza tutto quello di cui scrivi, però almeno devi “essertelo meritato”, come sentii dire una volta giustamente da Walter Siti.
Riesci a spiegare meglio il concetto di “meritarsi” ciò che si racconta?
Se racconto di un assassino non devo per forza aver ucciso qualcuno per mettermi credibilmente nei suoi panni, ma devo rintracciare in me la parte omicida, o violenta, o disperata, che magari dorme profondamente ma da qualche parte purtroppo c’è, esiste, e tirarla fuori. Per questo, scrivere un romanzo è anche un esercizio impegnativo sul piano emotivo. Gli scrittori tra l’altro fingono persino nei memoir, che non sono mai realmente autobiografici se filtrati da una lingua letteraria e da un determinato tipo di drammaturgia. Andare a rompere questo congegno, questo esercizio, questa alchimia, o se vogliamo possiamo definirlo anche un “dialogo con i demoni”, incrina il concetto di “finzione”, manda letteralmente a puttane tutta la letteratura. Sento di battermi con forza contro questa mentalità.
I cattivi non mancano neanche nei tuoi romanzi. Seguendo questa logica, la tua biografia dovrebbe essere spaventosa.
Se racconto, come ho fatto ne La Ferocia, delle persone ributtanti dal punto di vista etico, non li tratto mai come se non fossero esseri umani, non traccio la linea tra buoni e cattivi. Il personaggio ributtante diventa un mio simile, un mio fratello, ancora di più: divento io. L’arte è interessata a comprendere più che a giudicare, l’ho già detto. Invece la cosa terribile è quando la gente vuole che si metta sul banco degli imputati un personaggio, letterario o cinematografico, e lo si giudichi colpevole o innocente. Ma per questo bastano i social. Un romanzo è qualcosa di più complesso e più profondo di una battuta sarcastica ben strutturata, o di una sentenza di assoluzione e condanna.
Un caso simile nel cinema si era scatenato intorno a Ultimo tango a Parigi.
Sì, con Bernardo Bertolucci negli ultimi anni eravamo diventati amici ed era proprio il periodo del ritorno delle polemiche per la scena del burro tra Marlon Brando e Maria Schneider. Con l’andare del tempo, mi raccontava, la polemica era cambiata di segno: all’inizio gli rimproveravano il fatto che quella scena non fosse scritta nel copione. C’erano state le rimostranze di Maria Schneider e tutto quello che ne era conseguito. E fino qua, si stia con Bertolucci o con Schneider, capisco la discussione. Poi, però, la gente arrivò a pensare che quei due avessero veramente scopato, con l’atto di sodomia incluso. Molta gente pensava addirittura che ci fosse stato uno stupro! Una ricostruzione che offendeva profondamente Bertolucci, che diceva: «Ma come? Io sono un artista, mi occupo di finzione, e questi pensano che non ci sia stata finzione?» Questa, però, è parte di una questione più grande, di un’onda moralizzatrice che aveva raccontato Philip Roth già molto bene nel 2000 con La Macchia umana. L’epopea di Coleman Silk è tutta su questa roba qui. Dagli Stati Uniti è arrivata in parte anche da noi ma spero si dissipi il prima possibile.
Da cosa pensi sia scatenata questa ondata di politicamente corretto?
Il politicamente corretto ha ragione di essere quando davvero si propone di essere uno degli strumenti (ad esempio uno strumento retorico) attraverso cui contribuire a raddrizzare torti sociali, a eliminare ingiustizie, a riscattare o tutelare le vittime del potere. Quando però, a propria volta, è il politicamente corretto a venire utilizzato come strumento di potere, come nudo mezzo di autoaffermazione nella rincorsa – con la scusa delle giuste cause – di un successo eminentemente personale, è lì che non ci sto più. Io ad esempio sono per il #metoo. Mi sembra assurdo che in Italia non ci sia mai stato un Presidente della Repubblica donna, una Presidente del Consiglio dei Ministri, è abbastanza vergognoso che la maggior parte dei posti di potere da noi (la direzione dei grandi quotidiani, delle tv, delle università, i ruoli dirigenziali nelle aziende) sia occupato da maschi, per non parlare di come, sul piano sessuale, tanti maschi da noi scontino un’eredità culturale che nel XXI secolo li fa sembrare dei ridicoli cavernicoli. Dunque, bene il #metoo. Non però se, ripeto, viene utilizzato solo per distruggere gli avversari, o per cancellare chi non ci sta simpatico. Per usare una categoria del Novecento, qua mi sembra che a volte si finga di essere trotskisti per sentirsi in diritto di mandare di fatto chi non ci piace in un gulag. Dal punto di vista artistico, invece, il politicamente corretto non ha nessuna ragione di essere.
Chi non è mai stato politicamente corretto è Michel Houellebecq, che hai provato più volte a portare al Salone del libro di Torino. Cosa pensi lo abbia elevato a scrittore rockstar?
L’ultimo libro, Serotonina, non l’ha neanche promosso. Anzi, ha aspettato che gli altri lo promuovessero per lui e ha fatto benissimo. Amo Houellebecq, amo probabilmente Roberto Bolaño più di lui, però penso che Houellebecq, pur nella sua semplicità (rispetto a un Bolaño, a un Vargas Llosa, a una Toni Morrison), abbia raccontato benissimo una malattia sociale come la depressione. Nessuno come lui l’ha saputa elevare a senso di fallimento di una società come la nostra. I lettori ci si ritrovano, perché ciascuno di noi, in un momento della vita prolungato o meno, l’ha provata. E poi ha preso in esame una categoria ben precisa, che in pochissimi sono in grado di rappresentare, e cioè ha messo in scena la piccolissima borghesia, la vera classe media che sprofonda su sé stessa. Non tratta storie di artisti, ma di informatici, piccoli funzionari, chimici, che tutti quanti insieme formano un sentimento diffuso che diventa politicamente rilevante. Questa cosa Houellebecq la sa fare benissimo e il successo mi sembra sensato.
Ti andrebbe di rispondere una volta per tutte a Gian Paolo Serino – e indirettamente agli altri tuoi detrattori -, visto che è stato così critico rispetto a “La Ferocia” nel pezzo intitolato: “L’inspiegabile scrittura (e successo) di Nicola Lagioia”.
Gian Paolo Serino può stroncarmi tutte le volte che vuole. È un suo diritto. Dico questo perché il mio pregiudizio verso di lui – credo intimamente che mi azzannerebbe qualunque libro scrivessi, che mi detesti a prescindere, anche per suoi fantasmi privati – non deve mai invece prevalere sulla presunzione che al contrario non sia così, e che lui stia esercitando la sua libertà di critica. Dico questo perché sento qualcuno parlare di “cancel culture” e mi vengono i brividi. C’è, vale a dire, in giro, molta voglia di silenziare, mettere a tacere, chi ci sta antipatico, o chi semplicemente ci detesta. Questo va contro tutti i miei principi. Alcuni amano molto i miei libri. Ad altri non piacciono. Pace. Non mi sono messo a scrivere per unire tutto l’arco costituzionale. Che scrittore sarei se piacessi a tutti? Sono tradotto dappertutto, ho lettori che mi seguono di libro in libro, ho venduto, anche prima dello Strega, molto più di quanto potessi immaginare per i libri che faccio. Ci potrà pure essere qualcuno a cui non piaccio, no? Nel mondo anglosassone, dove Ferocity è andato molto bene, il libro è stato recensito molto bene dal Guardian, dal Financial Times, dalla Los Angeles Review of Books, è uscito un pezzo bellissimo su Irish Times, ho scritto sul New Yorker, non sono proprio piaciuto al New York Times che avrebbe potuto consacrarlo. Be’, dovrei dolermene oltre un po’ di generica stizza? Ma la letteratura deve servire proprio a non mettere tutti d’accordo! È ovvio che se esce una stroncatura, e l’autore del pezzo è molto violento in modo gratuito, ci resto male. Però non posso cedere ai bassi istinti pensando che l’autore del pezzo deve sparire dalla circolazione perché la sua semplice esistenza mi danneggia. Mentre invece siamo arrivati a questo. Ma questo è un ragionamento da pubblicitario, da politicante di quart’ordine, non da scrittore o intellettuale. Che ovviamente dagli attacchi, se vuole, può difendersi altrettanto muscolarmente. Io di solito non rispondo anche perché ho sempre un casino di cose da fare.
Intanto i giornali stanno sparendo, i libri hanno rischiato con gli E-book che però non hanno ancora sfondato. Come immagini la fruizione delle informazioni e della cultura fra 50 anni?
L’informazione è in crisi, i libri sono molto più resistenti. L’arte è il contrario di informazione e comunicazione, e mi interessa infinitamente di più. Per adesso non esiste una “forma artistica” in grado di competere con i libri se si vuole raggiungere un certo grado di complessità, bellezza e conoscenza. Quello che fa Proust con la Ricerca del tempo perduto, o Malcolm Lowry con Sotto il vulcano, o Emily Brontë con il suo meraviglioso romanzo non riesce a farlo nessuna altra forma di racconto. Al tempo stesso, l’effetto dei piani sequenza di Kubrick in Orizzonti di gloria o Arancia meccanica non è replicabile dalla letteratura. Esiste uno specifico cinematografico. Ma esiste anche uno specifico letterario di cui l’uomo avrà bisogno finché non sarà rimpiazzabile da qualcosa di equivalente. Per dirla in un altro modo, forse la letteratura finirà con il superamento dell’homo sapiens.
Sei nato nel 1973. In quell’anno è finita la guerra in Vietnam, è avvenuta la prima chiamata con un cellulare mobile e si è consumato lo scandalo Watergate.
E al cinema è uscito Ultimo tango a Parigi. Lo ribadisco, perché sul diario di mia madre dell’epoca aveva scritto cosa era successo quando sono nato e c’era riportato anche il fatto di essere andata a vedere la pellicola prima che la sequestrassero.
Ecco, successivamente c’è un momento storico che ti ha cambiato la vita?
Ce ne sono parecchi. Quello che mi ricordo nitidamente è accaduto quando avevo 5 anni, il sequestro di Aldo Moro. A Bari è stato vissuto con particolare partecipazione, essendo lui pugliese, di Maglie, e avendo insegnato in città. Se invece dovessi dire il momento in cui ho raggiunto una qualche coscienza di me ne posso citare tre. Il primo quando avevo circa 6-7 anni e iniziai a leggere un sacco di fumetti. Divoravo i fumetti Marvel e verso i 12 anni passai ai fumetti d’autore, per esempio di Andrea Pazienza che era mio conterraneo e all’epoca ancora vivo, così come ricordo i primi Alan Moore, i primi Frank Miller, oltre naturalmente a Frigidaire. Un altro momento importante fu quando la professoressa di inglese ci fece leggere, di punto in bianco, The Waste Land di Thomas S. Eliot e fu uno shock culturale bellissimo visto che vivevo in una casa in cui non c’erano libri e neppure quotidiani. Il terzo, la scoperta della musica alternativa, a quell’epoca il post-punk. Anche se non sono eventi storici, hanno rappresentato la linea d’ombra che ho attraversato per diventare più consapevole. Ma se vogliamo rimanere agli eventi storici, per contrasto con l’oscurità dell’omicidio Moro, ci fu la vittoria dei Mondiali di calcio nell’82. Un momento di gioia debordante.
L’immagine simbolo è sempre quella della partita a carte?
Quella roba lì, a livello simbolico, con la scena dello “Scopone” in aereo tra Pertini, Zoff, Causio e Bearzot, è irripetibile. Fu un momento vissuto con una tale purezza dall’intero paese che non credo sia replicabile. Non solo per i politici, Pertini, ma anche per i calciatori. La statura morale di Zoff, di Bearzot, dove la andiamo a trovare? Però forse questo è solo un pregiudizio generazionale. Forse è l’ultimo momento di innocenza pubblica che ho vissuto io. Perché se parliamo con quelli più adulti di me, ti ricordano, forse anche giustamente, che l’innocenza in Italia era già morta dai tempi della strage di Portella della Ginestra.
Scusa se passo a un argomento che potrebbe sembrare frivolo, ma ci sono pochissime foto di te senza occhiali con quella montatura così “vintage”. Sono una sorta di maschera?
Effettivamente hanno una storia. Li ho acquistati mentre ero con mia moglie a Londra, avevamo appena visto la Tate Modern e ci siamo fermati a un mercatino dove mi ha colpito questo modello anni ’50. Più che una maschera è che sono miope. A parte gli scherzi, le maschere sono belle. A Capodanno sono stato a una festa con amici e a un certo punto sono saltate fuori delle maschere ed ero contentissimo. Io e mia moglie ci siamo divertiti come pazzi. Mi sento a mio agio con le maschere.
Un altro che agli occhiali non rinuncia mai è Massimiliano Parente: prima amico, poi nemico, ora di nuovo amico. Visto che per un certo periodo di te ha detto peste e corna, vuoi ricambiare amichevolmente segnalando cosa non sopporti di lui?
Tra fine anni Novanta e inizio 2000 ci siamo visti quasi ogni giorno e molte notti per anni. Poi abbiamo litigato e siamo riusciti a non parlarci per 16 anni. Solo di recente, complice il caso, cioè una telefonata sbagliata, ci siamo rivisti sfidando un silenzio così lungo e la cosa incredibile sai qual è? Che abbiamo ripreso a parlare con la stessa confidenza e facilità di prima che litigassimo. È andata così, non l’avevo messa in conto. Dopo una certa età le sorprese sono quasi sempre negative, questa volta invece no. Le sparate fanno parte di lui, visto che è una persona complessa e contraddittoria come credo tutti. Certe sue uscite o prese di posizione non le condivido, ma se frequentassimo solo persone di cui condividiamo tutto diventeremmo in breve dei mostri alla ricerca di una corte. E poi gli scrittori devono andare ovunque. Con le persone non puoi prendere quello che ti piace e pretendere di amputare da loro quello che non ti piace.
Come scrittore, come lo consideri?
Parente ha scritto alcuni libri molto interessanti, come intellettuale è scorretto, spesso in modo gratuito e insensato. Ha talento, possiede una notevole carica autodistruttiva. Chi si sente giustamente ferito dalle sue uscite, ignora spesso quanto la violenza lui la eserciti innanzitutto contro se stesso. Quelli che mi hanno chiesto di dissociarmi da lui e rompere di nuovo l’amicizia (siamo arrivati a questo) perché si sono sentiti feriti da una sua uscita, ignorano (perché è sempre più arduo distogliere gli occhi dal proprio ego) quanto Massimiliano possa essere stato infinitamente più violento quando ha attaccato me. Non me ne sono lamentato pubblicamente una volta, né mi sarei mai sognato di brigare per ottenerne la sua cancellazione. Non condividevo una minchia di quello che scriveva nei suoi attacchi contro di me, è ovvio, ma credevo fosse libero di farli. Di lui mi dispiaceva di più il silenzio tra noi, che non il fatto di discutere o litigare su alcuni argomenti. Insomma, per quale dannato motivo stiamo sempre lì a menarcela con questa storia dell’alterità? Accettare l’altro da sé di qua, l’altro da sé di là… ma l’altro da noi, proprio perché tale, è per definizione l’altro difficile. Questo è proprio l’abc. Tutta la vita con Lucian Freud, con Elsa Morante, con Amelia Rosselli, con Jean Genet.
La perdita dell’innocenza è uno dei temi ricorrenti dei tuoi romanzi, ma quando nella vita hai sentito di aver perso davvero la tua di innocenza?
Quando, potevo avere tredici o quattordici anni, per salvare me stesso non sono stato in grado di aiutare come non avrei potuto (amare non è questo? Fare ciò che non si può?) una persona molto cara che soffriva di schizofrenia delirante.
Che posto ha l’amore nella tua vita? E quale, invece, nel tuo universo letterario?
L’amore occupa un posto importante sia nella mia vita che nel mio universo letterario. L’amore, puntando all’assoluto, va sempre in giro ferito. Sto con la stessa persona da tredici anni, la amo molto, mi considero felice. E ferito, beninteso.
Se potessi tornare indietro nel tempo, quale periodo sceglieresti?
Mi sarebbe piaciuto moltissimo assistere alle feste del Medioevo ellenico, o poco più tardi, durante le quali i rapsodi e i cantori rielaboravano, organizzavano, selezionavano, arricchivano, reinventavano il materiale orale che, in seguito, fissato attraverso la scrittura, sarebbe diventato L’Iliade. Pensa che cosa incredibile partecipare a quelle celebrazioni! È l’attimo prima che mi interessa, non quello della codificazione ma della creazione. Mi sarebbe anche piaciuto partecipare ai Misteri eleusini. O sennò direttamente nella preistoria.
Musicalmente, sei un batterista. C’è una band in cui hai sognato di suonare?
Anche qui, sono i momenti aurorali che amo. I Joy Division mentre concepiscono Unknown Pleasures. Dylan tra il ’64 e il ’65. Ma anche Vasco Rossi che, appena uscito dal carcere, scrive Cosa c’è.
Che letture consiglieresti ai nostri politici?
Non sono così arrogante da voler dare un consiglio non richiesto.
Ma c’è una follia che hai fatto nella vita, o sei davvero così posato come sembra?
Ne ho fatte un sacco, ma non le esterno. Anche perché faccio il direttore del Salone del Libro di Torino… Posso dirtene una, che è raccontabile rispetto alle altre. Un giorno ero in auto con due amici e loro stavano litigando in maniera furibonda. Dopo un po’ non sopportavo più quella situazione, mi spiaceva, perché si stavano proprio massacrando. Non riuscendo a fermarli, ho pensato che un’idea poteva essere lanciarmi dalla macchina in corsa. Chissà perché l’ho fatto, forse per farli concentrare su qualcosa di più grave. L’auto andava a circa 60 all’ora e infatti ne sono uscito tutto escoriato. Non c’era nessuna auto dietro di noi, fortunatamente, anche perché questo non l’avevo calcolato. Di altre cazzate ne ho fatte parecchie, ma preferisco tenerle per me e al massimo trasfigurarle nei libri. Se poi vogliamo un vero gesto spericolato per ciò che riguarda il mio profilo pubblico… be’, è stato quello di accettare nel 2016 la direzione del Salone del Libro. Il Salone veniva dato da tutti per finito, spacciato, morto. Era una sorta di missione impossibile o suicida. Bisognava essere un po’ matti per accettare. In realtà io proprio lo sentivo, lo sentivo molto bene, dentro di me, che avremmo potuto ribaltare la situazione in modo spettacolare. È stata una cosa bellissima.
Qual è il tuo rapporto con il tempo?
Che il tempo passi e alla fine si muoia, per me è terribile. Senza il passaggio del tempo non perderemmo i nostri cari, oppure persone straordinarie come Alessandro Leogrande, un grande dolore due anni fa. Più che il tempo è la percezione del tempo che dà un senso alla vita e anche alla letteratura. Senza il tempo, infatti, non avrebbe senso raccontare storie. Il tempo è la vera eminenza grigia. Il personaggio oscuro dietro qualunque opera. Chi lo aveva capito meglio di tutti è Marcel Proust. Parallelamente, ti rendi conto che il tempo così come lo sperimentiamo è frutto di un artificio del nostro stato di coscienza. A livello microfisico, non esiste. L’ultimo libro di Carlo Rovelli lo spiega bene, così come a livello di microparticelle il tempo è assente, o a livello di meccanica quantistica, e nella relatività di Einstein il tempo è curvo. Se poi sperimentiamo stati alterati di coscienza, ci rendiamo conto che la percezione del tempo cambia e qui è utile leggere il libro Come cambiare la tua mente di Michael Pollan. La vera beffa è questa: ciò che è centrale nella nostra esistenza è qualcosa che probabilmente non esiste dal punto di vista oggettivo, ma è semplicemente il modo che ha il nostro cervello di riorganizzare le cose intorno a noi.
E quindi?
Quindi, essere perennemente sotto scacco di una cosa fittizia è abbastanza inquietante. La scienza e l’arte sono gli unici due ambiti, ancor più della filosofia, che riescono a ghermire, lambire, sfiorare, farci intuire questo mistero supremo. Ho trovato interessante la serie Undone, che sto guardando su Amazon Prime, dove non capisci mai se la protagonista è schizofrenica o se invece ha un rapporto più profondo con il fluire del tempo di quello che avrebbe la gente ’normale’.
Tutto molto affascinante, ma concretamente per Nicola Lagioia?
Il passaggio del tempo, tecnicamente, lo percepisco come il prodotto dello stato di coscienza in cui sono immerso. In maniera più spicciola, ho un rapporto tirannico con il tempo. Scrivo libri, dirigo il Salone del Libro di Torino e tante altre cose, mi sveglio alle cinque e mezza del mattino, scrivo per 4-5 ore e poi mi metto a fare il resto. Quindi ho un rapporto complicato con il trascorrere del tempo. Mi piacerebbe un giorno trattarlo con più libertà, ma per adesso sono in questa situazione un po’ militaresca.
Come vorresti morire?
Sento di avere tante cose ancora da fare, che vedo la morte come una nemica. Se proprio necessario, potrebbe essere un buon modo farsi trovare in quel momento in uno stato alterato di coscienza da Lsd, come Timothy Leary. Non sarebbe male, purché circondati dai propri cari, da una caterva di gente cara. La cosa migliore, però, sarebbe arrivarci come tutti quanti sperano, cioè nel modo meno traumatico e violento possibile, ma soprattutto sentendosi per quanto possibile risolti. Avendo superato, mio malgrado, l’età in cui si poteva morire giovani eroicamente, propendo più per la seconda.